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«Hanno ucciso mio marito, ho perso casa e averi ma non ho perso la fede. Gesù è il mio Salvatore»
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16 Novembre 2015

«Hanno ucciso mio marito, ho perso casa e averi ma non ho perso la fede. Gesù è il mio Salvatore»

 
Mumbai (AsiaNews) – La Chiesa dell’India “è una Chiesa vibrante e attiva, e il papa Francesco la ama”. Lo ha detto il card. Malcolm Ranjith, arcivescovo di Colombo, durante la messa che ha chiuso il Congresso eucaristico nazionale di Mumbai. Migliaia di fedeli hanno partecipato alla celebrazione eucaristica. Nei giorni precedenti, si sono susseguite diverse testimonianze da parte di presuli e fedeli del Paese. Fra queste spicca quella di Kanaka Rekha Nayaka, sopravvissuta ai pogrom anti-cristiani del 2008.

Dopo la sua toccante testimonianza, la donna è stata raggiunta e benedetta dai tre cardinali presenti (card. Gracias, card. Toppo e card. Cleemis). Il suo racconto ha spinto proprio l’arcivescovo di Mumbai a dire: “Testimonianze come questa rinforzano la nostra fede e dimostrano che Cristo è con noi. La Croce è inestricabile dalla vita di ogni cristiano”. Di seguito il testo letto da Kanaka, traduzione in italiano a cura di AsiaNews.

«Sono Kanaka Rekha Nayaka, moglie del defunto Parikhita Nayak. Ho due figli. Il 25 agosto del 2008, intorno alle 13, ero con i miei bambini a casa. All’improvviso, una folla composta da circa 400 persone è entrata nel mio villaggio urlando slogan anti-cristiani. Sentendo il rumore, sono scappata nella foresta con i miei figli. Ho potuto vedere il fumo delle case bruciate, nonostante fossi molto lontana. Ero preoccupata per mio marito, che aveva preso l’altra strada. I violenti hanno circondato la casa dove lui si era nascosto. Portavano tridenti, asce, coltelli e pistole. Avevano ucciso due amici di mio marito. Lui li ha spinti via ed è scappato nella foresta per salvarsi la vita.

Non sono potuta rientrare in casa, perché loro l’avevano bruciata. Dopo aver passato tutta la notte nella foresta sono andata nella casa di mia madre Raikia, sempre attraverso gli alberi. Lì ho incontrato mio marito ma, dato che il posto non era sicuro per noi, ci siamo spostati nella giungla fino a una cittadina vicina. Mia figlia piangeva per il bisogno di acqua e per la stanchezza. Ci siamo spostati sul ciglio della strada cercando acqua, e lì i violenti hanno preso mio marito.

Immediatamente siamo stati circondati da più di 100 persone armate di spade, asce e pistole. Hanno iniziato a urlarci contro degli insulti. Hanno preso mio marito, l’hanno portato in un tempio vicino e lo hanno appeso a un palo. Lo hanno picchiato in maniera selvaggia per costringerlo a confessare la sua fede cristiana. Lui ha risposto: “Potete uccidermi, ma non diverrò mai indù”.

Mi sono inginocchiata ai piedi dei persecutori e li ho implorati di salvare la vita di mio marito, ma non mi hanno ascoltato. Gli hanno messo una catena da bicicletta intorno al collo e con questa l’hanno trascinato per circa un chilometro. Poi gli hanno tagliato le gambe e la testa, e infine gli hanno dato fuoco. Sono scappata con i miei bambini e ho cercato una stazione di polizia. Ho informato gli agenti, che sono andati sul posto ma non hanno trovato più nessuno.

Ho preso il cadavere bruciato di mio marito e, dopo gli esami autoptici, l’ho seppellito. So chi l’ha ucciso, e so che qualche tempo dopo è stato arrestato. Ma dopo sette anni sono stati rilasciati. Ho paura di tornare al mio villaggio, perché mi hanno minacciato.

Ho perso mio marito, la mia casa e i miei averi ma non ho perso la mia fede. Gesù è il mio Salvatore».

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