Immaginate la sorpresa della troupe delle Iene quando l’altra sera si è sentita parlare di Dio da un bambino 12enne scampato alla possibile tragedia del bus sulla paullese. Come noto, tutti i giornali hanno parlato diffusamente di Ramy, il giovane di origini egiziane che, telefonando alla madre sul bus dirottato a Crema, ha sventato l’attentato. Tutti a occuparsi di lui, anche a causa della polemica sulla cittadinanza che ha coinvolto il vicepremier Matteo Salvini.
Invece nessuno si è occupato di tutti quegli altri ragazzini che hanno vissuto il sequestro senza conquistare le prime pagine dei giornali, senza diventare simbolo di qualcosa, ma vivendo in modo non meno partecipato e non meno attivo il dramma. Tra questi anche il ragazzino che si era offerto come ostaggio e quell’altro che invece aveva raccolto un cellulare caduto per passarlo poi a Ramy. Per loro, meno propensione a considerarli eroi, eppure hanno avuto fegato.
Ce n’è un altro, tra loro, che non si è guadagnato il titolo di eroe, ma che ha dato una lezione a tutti con quell’urlo liberatorio che i giornali hanno interpretato come un “ti amo”, non si sa bene rivolto a chi.
C’è chi, come qualche rotocalco, ha addirittura detto che era rivolto alla sua fidanzata. Sarà. Invece la spiegazione è molto più semplice, ma se vogliamo, anche molto più profonda.
Lui si chiama Guglielmo e a incaricarsi di andare a trovarlo ci ha pensato la troupe delle Iene. La trasmissione Mediaset si aspettava di trovarsi di fronte un ragazzino innamorato di chissà quale coetanea, invece, ha dovuto fare la scoperta che non si aspettava: «Macché – ha detto Gugliemo – quel “ti amo” era rivolto a Dio». Sorpresa.
Gugliemo ha infatti spiegato che sul pullman erano tutti terrorizzati e che molti di loro si sono affidati a Dio con preghiere e voti personali. Quando il gioco si fa duro, l’anima si rivolge a Dio, con quella naturalezza tipica dei bambini. Guglielmo ha così detto che una volta uscito dal bus ha urlato a squarciagola tutto il suo amore verso Colui che – con la sua onnipotenza e misericordia – riteneva il vero responsabile della salvezza sua e dei suoi compagni.
Un gesto istintivo e liberatorio, puro e semplice. Che solo un bambino è in grado di fare senza secondi fini. E che ci insegna l’importanza della riconoscenza e della gratitudine. La stessa riconoscenza che Gesù raccomandava ai miracolati e che S. Teresa del Bambino Gesù, anche lei senza aver studiato teologia, intuì meravigliosamente. Una virtù cristiana, quella della gratitudine, che è parte integrante della giustizia divina e che ci mette nella condizione di sentirci beneficati senza alcun diritto da Dio, del quale diventiamo debitori.
Quell’urlo ci insegna un’altra grande verità: in tutto quello che ci accade nella vita dobbiamo abituarci a ringraziare Dio. Perché lui, anche se non lo capiamo subito, è capace di tirare fuori il bene anche da quello che noi in quel momento vediamo come un male. Basta poco, basta un semplice “Grazie a Dio”, espressione che recitiamo troppe volte con troppa distrazione per apprezzarla veramente come invece ci insegna Guglielmo.
Se lo capiamo è merito anche dei bambini, che pensano a Dio naturaliter, con quella naturalezza evangelica, che noi spesso vogliamo cancellare dai nostri schemi mentali. E che il sistema mediatico, appropriandosi strumentalmente di quel grido, non riesce proprio a riconoscere perché nemmeno si pone il problema. Il problema – bellissimo – di Dio. E del bisogno di ringraziare qualcuno più in alto di noi.
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