Uteri in stile floreale ricamati sugli abiti, slogan femministi importati da Oltreoceano per essere più radical chic (vedi “my body, my choice”, che oggi pare suoni meglio del grido di battaglia delle veterofemministe italiane, “l’utero è mio e me lo gestisco io”), scritte come “22.05.1978” a celebrare la data di promulgazione della 194, cioè la legge attraverso la quale sono stati legalmente soppressi circa 6 milioni di bambini. Sono le trovate dell’ultima campagna di Gucci, associata al lancio della collezione Cruise 2020, presentata martedì ai Musei Capitolini.
Da un lato la propaganda abortista della maison non sorprende, perché le grandi case di moda sono avvezze a veicolare il pensiero politicamente corretto, ma dall’altro si può dire che Gucci abbia superato un altro limite, guadagnandosi gli elogi delle riviste patinate e delle voci più rappresentative del sistema mediatico. Che vanno in brodo di giuggiole a sentir parlare così il direttore creativo Alessandro Michele: “Le donne vanno rispettate e considerate libere di scegliere quello che vogliono per il proprio corpo. Anche se è la scelta più difficile, quella di interrompere una gravidanza”, ha detto lo stilista, sfoggiando la solita retorica su una malintesa “libertà di scelta”, che viene usata per togliere la vita a un essere umano innocente. Questo è l’unico dato di fatto, al di là dell’intento politico della campagna che disprezza le “ondate populiste” (per usare le parole di Vogue) che sarebbero rappresentate dalle restrizioni all’aborto recentemente approvate in Alabama e in altri Stati americani.
Michele scade perfino nel grottesco con un’associazione improponibile: “In questa sfilata si parla dell’importanza della libertà d’espressione, e proprio per questo mi pare assurdo che oggi ci sia chi vuole negare questa libertà alle donne, non riconoscendo il loro diritto a disporre del proprio corpo come invece possono fare gli uomini”. Difficile dire se sia più raccapricciante o ‘creativo’ che lo stilista invochi così la libertà d’espressione, dove la sottintesa “espressione” è qui quella di uccidere liberamente il bambino che si porta in pancia. Ma anche questa capriola linguistica è funzionale al capovolgimento della realtà, essendo chiaro che oggi la libertà d’espressione autenticamente minacciata è quella di chi difende la vita fin dal concepimento, come mostrano gli immancabili polveroni mediatici e le censure che seguono ogni campagna a difesa del bambino nel grembo (vedi la sorte dei manifesti di Pro Vita o l’isteria di massa contro i feti di plastica al Congresso mondiale delle Famiglie) e che fanno il paio con i tentativi di restringere ed eliminare l’obiezione di coscienza. Un diritto, quest’ultimo, che non riguarda solo l’ambito medico, bensì interessa nella pratica le professioni più diverse, compresa – si può immaginare – quella di quei semplici lavoratori che avranno dovuto ricamare, anche contro la loro coscienza, i simboli e le scritte pro aborto.
Michele, coinvolto in una relazione gay e attivissimo con la Gucci a diffondere le tematiche Lgbt, con cui la cultura dell’aborto va a braccetto, è anche un nostalgico del paganesimo (come fare un autogol, se pensiamo alla condizione delle donne nelle società pagane) e della “vicinanza” – riassume la laicista Repubblica – delle divinità pagane agli uomini. “I loro dei erano esseri umani con pregi e difetti. Non avevano bisogno di crearsi un essere superiore e onnipotente, com’è accaduto con la Chiesa”.
Le parole di Michele confermano che alla base di tante menzogne c’è il rifiuto di Cristo, che si è fatto carne scendendo in mezzo agli uomini, manifestando in tutto, dalla nascita alla morte, il Suo amore e la Sua vicinanza – questa sì, reale – a ognuno di noi, intendendo salvarci dal peccato ed elevarci a Lui. Sull’esempio della piena di grazia, Maria Santissima, pienamente libera proprio perché in tutto obbediente e amante della volontà di Dio. Altro che paganesimo.
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