«Il complottismo è diventato il modo più logico per spiegare come va il mondo». È questa la cantilena su cui si appoggia un certo mainstream, ma è anche lo strumento ideologico con cui lo stesso mainstream si occupa (e si preoccupa) di dosare la qualità di informazione da lasciar arrivare all’opinione pubblica. I guai (e gli imbarazzi) nascono quando si scopre che certe notizie bollate come fake news, semplicemente non lo sono. Il caso delle scottanti e-mail trovate nel laptop di Hunter Biden (abbandonato in un’officina di riparazione nel Delaware nell’aprile 2019) è lì a dimostrarlo. Un pc che può diventare un vaso di Pandora: una tesi complottista, irrisa dai più, che si è rivelata vera, e che oggi tiene sotto scacco il rapporto USA- Russia. Con l’Europa che goffamente rimane a guardare.
Bene, con un fatale ritardo di un anno e mezzo, prima il New York Times e poi il Washington Post (i due più importanti giornali americani di area liberal), hanno ammesso che sì, lo scoop del New York Post dell’ottobre 2020, quotidiano che per primo ha raccontato i traffici opachi del figlio di Biden, è da considerarsi autentico. Bontà loro.
Non solo per tutto questo tempo i “giornaloni” (americani ed europei) hanno eliminato la notizia, ma anche i giganti Facebook e Twitter hanno fatto la stessa cosa. Ad andare a fondo e a prendere sul serio le gravissime e circostanziate ricostruzioni del New York Post sono stati perlopiù giornali e siti di ispirazione cristiana, liberi per natura. Per il sito tradizionalista The Remnant, «Facebook, seppellendo i fatti, ha fatto algoritmicamente il proprio dovere di sinistra, mentre il laptop di Hunter ha opportunamente incontrato l’abisso giornalistico proprio a partire dalle elezioni presidenziali». Il fatto che Twitter, poi, fosse addirittura arrivato a censurare l’account ufficiale del New York Post, colpevole di aver raccontato delle mail di Biden jr., Il Timone lo aveva denunciato già lo scorso settembre.
Che pochi abbiano il coraggio di scrivere nero su bianco chi abbia guadagnato da questi 17 mesi di censura, è cosa che non stupisce. Rimane il fatto che l’opinione pubblica – malgrado tutti i filtri del mondo – sappia ancora fare uno più uno. Chi può davvero pensare che le foto di Hunter Biden, nudo mentre fuma crack con una prostituta, non avrebbero cambiato le sorti delle elezioni americane se, invece di essere nascoste, fossero state mostrate agli elettori? Chi può davvero pensare che gli americani chiamati al voto sarebbero rimasti indifferenti alla notizia che l’allora candidato alla Casa Bianca avesse sfruttato il suo ruolo per favorire affari di famiglia milionari con i dirigenti cinesi della Cefc (una delle 10 più grandi compagnie private della Cina), e che questi avessero pagato la bellezza di 4,8 milioni di dollari a società controllate da Hunter Biden e da suo zio Jim, fratello del Presidente Usa? E che successivamente lo stesso Biden Jr avesse ricevuto un ulteriore milione di dollari per rappresentare e sponsorizzare negli USA Patrick Ho, manager cinese indagato per un caso di corruzione legato a Ciad e Uganda?
Oltre al buon senso, lo hanno mostrato diversi sondaggi demoscopici, ripresi in questi giorni proprio dal New York Times (ormai, evidentemente, è tardi e si può): per il blasonato quotidiano almeno l’8% degli elettori democratici non avrebbe votato Biden se avesse avuto queste notizie per tempo. Gran parte degli analisti politici, poi – in una consequenzialità autoevidente che mostra i danni irreparabili di un’informazione totalmente schierata – si dice convinta che la pragmaticità propria dell’ex Presidente USA Donald Trump («l’unico Presidente a non fare guerre negli ultimi 30 anni», così l’eurodeputato estone Jaak Madison candidandolo al Nobel per la Pace) non avrebbe permesso che nascessero i presupposti per il conflitto in corso. La lezione, a volerla intendere, è semplice: la censura, alla lunga, può costare cara. A tutti.
Proprio in queste ore, poi, assistiamo a una vera escalation sulla vicenda che per mesi è stata tacciata di cospirazionismo. È di giovedì la notizia che il Ministero della Difesa russo ha affermato di possedere una corrispondenza intercorsa tra Hunter Biden, i dipendenti della Defense Threat Reduction Agency americana (Agenzia per la riduzione delle minacce alla difesa) e alti dirigenti del Pentagono. La corrispondenza confermerebbe il ruolo cruciale del figlio del Presidente USA nel fornire finanziamenti per il trattamento degli agenti patogeni in Ucraina, cioè – udite udite – per la creazione di componenti di armi biologiche. Igor Kirillov, capo delle forze russe di protezione dalle radiazioni biologiche, ha affermato: «Il contenuto delle mail mostra che Hunter Biden è stato determinante nel fornire opportunità di finanziamento per il lavoro con i patogeni in Ucraina, assicurando finanziamenti per Black & Veach e Metabiota (società biotecnologica americana, ndr)».
Già nella stessa giornata di giovedì alcuni membri repubblicani hanno inviato un’allarmata lettera alla Casa Bianca e al direttore degli Archivi Nazionali chiedendo «le registrazioni di qualsiasi comunicazione tra Hunter Biden e la Casa Bianca durante i due mandati dell’amministrazione Obama, quando suo padre era vicepresidente». Le richieste di chiarimento, molto chiare, visto lo scenario internazionale hanno il tono dell’improcastinabilità: «Le connessioni di Hunter Biden, in tutta la sfera di influenza russa, sono ora diventate particolarmente rilevanti nella guerra in rapido sviluppo in Ucraina». Nella lettera si legge ancora: «Se il governo russo sta tentando di influenzare la politica americana in Ucraina sfruttando il legame di Hunter Biden con suo padre, il presidente degli Stati Uniti, il popolo americano merita di saperlo».
Se è vero che qualora la Casa Bianca e gli Archivi nazionali non consegnassero i documenti richiesti non è contemplata la possibilità di un ricorso da parte dei repubblicani, è altrettanto vero che se il GOP (come ampiamente ipotizzato) riprendesse il controllo di Camera e Senato nelle elezioni di metà mandato del 2022, questo intenderà trascinare Biden Jr in un’audizione pubblica. «Ci rivolgeremo a Hunter Biden», ha detto Elise Stefanik, terza carica repubblicana alla Camera, «perché dovrebbe preoccupare ogni americano il fatto che il guadagno finanziario della famiglia Biden sia avvenuto a scapito della nostra sicurezza nazionale».
Gli scheletri della famiglia Biden – censurati per 17 lunghi mesi – arrivano dunque fino all’inaudita soglia della costruzione di armi batteriologiche. Proprio in Ucraina, epicentro della guerra. Tralasciando la montagna di interrogativi che la vicenda genera, rimane la netta (e amara) sensazione che non di rado i primi a mentire sono proprio i mezzi di comunicazione, e che il confine tra informazione e propaganda sembra farsi ogni giorno più sottile.
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