Oggi la Corte costituzionale si riunisce, nel primo di due giorni di udienza (vedi il programma), per valutare la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 580 del codice penale, relativo al reato di aiuto al suicidio.
L’eccezione di incostituzionalità era stata sollevata dalla Corte d’assise di Milano nel procedimento a carico del leader dei Radicali, Marco Cappato, che nel febbraio 2017 aveva accompagnato Fabiano Antoniani (Dj Fabo) a suicidarsi nella clinica svizzera Dignitas. E la Consulta, con l’ordinanza 207/2018, aveva sospeso il suo giudizio chiedendo al Parlamento di modificare l’art. 580 entro questo 24 settembre. Com’è noto, le Camere non si sono pronunciate sulla questione, che così ripassa all’esame della Consulta, intenzionata a depenalizzare certe fattispecie di aiuto al suicidio.
Il Timone ha intervistato sul tema il giudice Giacomo Rocchi, consigliere presso la Corte di Cassazione.
Giudice Rocchi, la Consulta, nell’ordinanza 207, ha parlato di casi in cui l’aiuto al suicidio si configurerebbe come «l’unica via d’uscita». Lei ha criticato più volte questa idea. Perché?
«L’ordinanza della Consulta del 2018 è grave e totalmente priva di speranza. Se diciamo che una persona, che ha una malattia inguaribile e sente dei dolori per lei insopportabili, ha il diritto di uccidersi e farsi uccidere, allora questa non è nemmeno una delle opzioni ma diventa in realtà l’opzione. Che una società civile non dovrebbe permettere. Infatti, il divieto penale contenuto nell’art. 580 (aiuto al suicidio) reca con sé una concezione del rapporto tra Stato e cittadini in cui la società dice al malato grave, al sofferente, che la sua vita gli interessa. E quindi la morte procurata è una “soluzione” sbagliata. Il riconoscimento dell’autodeterminazione a farsi uccidere reca con sé la concezione che quelle vite non sono ritenute né degne né importanti: è come se a una persona fragile, che ci chiedesse “posso ammazzarmi?”, rispondessimo “ammazzati pure”».
Quale via è allora percorribile davanti al dolore?
«Se noi abbandoniamo gli anziani al loro destino, genitori compresi, se il malato che soffre ci fa paura, evidentemente questo disinteresse fa sì che i sofferenti, i malati, i disabili si sentano sempre più soli. È chiaro che questo è il substrato su cui si fonda il “diritto” al suicidio. Perciò questo richiama la responsabilità di tutti noi. Basti pensare a quello che abbiamo imparato dall’aborto. Quando venne depenalizzato, la prima risposta fu dei centri di aiuto alla vita, messi in piedi dalla comunità cristiana, che si rese conto che mancava una capacità di aiutare le donne in difficoltà e di fornire delle risposte affettuose, vere, totalizzanti».
Dunque, essere davvero vicini al malato e a chi soffre.
«Sì, con il miglioramento delle cure palliative, del trattamento del dolore, degli hospice. E poi l’assistenza domiciliare di certe persone malate dovrebbe essere facilitata, perché è chiaro che il malato all’ospedale si sente più solo».
Perché non è accettabile la legge sulle Dat?
«Guardi, nell’ordinanza di rinvio, la Consulta spiega che la sua decisione deriva dal nuovo quadro normativo e cioè dalla legge sulle Dat. Questa legge già prevede l’eutanasia, poiché il paziente può essere lasciato morire in conseguenza del rifiuto di qualunque terapia e poiché tra queste si ricomprendono anche i sostegni vitali di base e cioè la nutrizione, l’idratazione e di fatto la respirazione. Le Dat sono un modellino che riempiamo con le crocette e che poi andrà in mano a un medico di pronto soccorso che non ci conosce e che non può parlare con noi perché saremo in fase di incoscienza… servirà a non utilizzare alcuna forma di rianimazione o di aiuto. Quindi, la scelta di fondo l’ha fatta la legge 219/2017 sul consenso informato: una legge di morte. Invece, noi abbiamo bisogno di persone che ci stanno accanto, che ci sostengono, di ospedali efficienti, di infermieri e medici attenti e premurosi, di familiari che ci aiutano».
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