Il generale Marco Bertolini, ex comandante del Comando operativo del vertice interforze e della Brigata Folgore, ricostruisce per il Timone genesi ed errori del conflitto ucraino. Dal ruolo «incendiario» di Italia e Ue, alla sconsiderata possibilità dell’atomica, fino al non più prorogabile affidamento al Cielo, ultima possibilità di pace.
Generale, in queste ore le repubbliche del Donbass, Lugansk e Donetsk, e le aeree di Kherson e Zaporizhzhia stanno decidendo con un referendum la loro annessione alla Russia. Per Biden si tratta di «un referendum farsa per annettersi altre parti dell’Ucraina». Dobbiamo considerarle votazioni legittime, oppure, perché svolte sotto “intimidazione” russa, non hanno alcun valore internazionale?
«Sono elezioni come tutte le altre. Con la popolazione invitata a votare, e con gli astenuti, esattamente come da noi. Il pregiudizio per cui chi non è dei nostri organizza solo elezioni-farsa non lo raccolgo. Anche in Kosovo, strappato alla Serbia nel ‘99, subito dopo l’azione militare della Nato si tennero le elezioni. Nessuno mise in dubbio che si trattò di elezioni regolari, anche se in effetti si svolsero in un contesto molto particolare, e anche se molti paesi importanti continuano a non riconoscere l’indipendenza del Kosovo. Quindi, prima di bollare come illegali le elezioni, aspetterei. C’è però una riflessione più importante da fare».
Quale?
«Con le elezioni si chiede se queste le regioni vogliono essere parte dell’Ucraina o della Russia, credo poi che per Zaporizhzhia ci sia una terza domanda, se cioè voglia essere autonoma. Bene, all’inizio della guerra gli obiettivi dichiarati da Mosca erano limitati all’autonomia delle due repubbliche del Donbass, della Crimea e alla non adesione alla Nato dell’Ucraina. Sostanzialmente in questi mesi di guerra, in cui l’Europa ha scelto di fare l’incendiaria anziché il pompiere, siamo arrivati al punto in cui non si parla più solo di autonomia del Donbass ma di adesione vera e propria alla Russia. I risultati di questa nostra forte presa di posizione, quindi, ci hanno portato a rinunciare ai rifornimenti energetici, ai turisti russi, alle importanti commesse che le nostre imprese si erano assicurate in Russia. Oltre al fatto di aver rovinato i rapporti con un paese europeo importante – perché ricordiamoci che la Russia rimarrà europea anche a conflitto terminato – innescando un’inimicizia che prima non c’era. E questo non farà bene».
Qual è il vero intento di queste elezioni?
«Credo che Putin voglia tentare di preparare la strada alla dichiarazione del raggiungimento degli obiettivi di Mosca, adottando un “cessate il fuoco” unilaterale che spizzerebbe l’Occidente. È solo una speranza la mia, ma ciò farebbe il paio con le richieste di Cina ed India al summit del SCO a Samarcanda. Entrambe, soprattutto la prima, sono infatti preoccupate anche per un impoverimento eccessivo dell’Europa a causa della guerra, che vanificherebbe gli importanti investimenti fatti in passato. Si pensi alla “Via della seta”, che da Pechino punta proprio al Vecchio Continente».
Se i territori scegliessero di stare con la Russia, eventuali attacchi militari in quelle zone sarebbero considerati aggressione diretta al territorio russo, circostanza che, secondo il codice di difesa di Mosca, prevede l’uso di armi nucleari per difendere «l’integrità territoriale del Paese». Cosa bisognerebbe fare per allontanare l’escalation atomica?
«Intanto va detto che ci stiamo abituando alla questione dell’uso delle bomba atomica come se fosse una semplice e spiacevole conseguenza della situazione attuale. In realtà sarebbe un dramma terribile non per l’Ucraina o per la Russia, ma per l’intero continente. Da militare dico che sarebbe il suicidio del mondo, impensabile da immaginare fino solo a due anni fa. Per cui il problema non è cosa possiamo fare, bensì cosa dobbiamo fare per impedire il cataclisma. Ecco, quello che dobbiamo evitare, e che avremmo dovuto evitare fin dall’inizio, è l’escalation».
Con quali mosse?
«Evitando di continuare ad alimentare la guerra con l’invio delle armi, o anche di imporre sanzioni, spesso più penalizzanti per noi che per la Russia. Sanzioni che, tra l’altro, si sono portate dietro dinamiche veramente odiose, penso all’atto di negare i visti ai cittadini russi, come se questi dovessero pagare una colpa atavica, l’appartenere ad un popolo. Se ci pensiamo è una cosa veramente incredibile da parte di paesi democratici quali diciamo di essere. Bisogna poi evitare quella guerra verbale e retorica che abbiamo iniziato da tempo, nella quale si è arrivati addirittura ad insultare il russo in quanto russo».
Detto questo, la Russia ha le sue enormi colpe…
«La Russia è sicuramente in grave torto. Pur ammettendo che la guerra non è nata adesso e che ha cause che risalgono all’inizio delle Primavere arabe e all’azione politica dell’amministrazione Obama, in ogni caso l’attacco russo del 24 febbraio è stato senz’altro un’azione molto forte, il punto di svolta dell’attuale situazione. Ciò non toglie che sia l’Europa, sia soprattutto l’Italia, pensando almeno a quello che rappresenta la sua vocazione dal punto di vista simbolico, non hanno fatto nulla per portare al tavolo della pace due contendenti europei che si battono per una classica disputa territoriale. Se non fosse per una potenza extra europea e non cristiana come la Turchia, oggi non ci sarebbe nessun canale di trattativa aperta tra i due paesi. Di questa mancanza pagheremo le conseguenze non solo dal punto di vista economico: a chi erediterà la Russia dopo Putin rimarrà una sorta di perenne sospetto nei nostri confronti».
«Se l’Italia andrà in una situazione difficile abbiamo gli strumenti, come nel caso di Polonia e Ungheria», queste le parole di Ursula Von der Leyen. Se intorno alla conduzione del referendum russo possono nutrirsi legittimi dubbi, in una democrazia compiuta come l’Italia il voto non può mai “andare male”. Non è anche questo atteggiamento ricattatorio a ispirare ulteriore sfiducia nella UE, e quindi, ultimamente, a contribuire a fomentare la guerra?
«Sì, non c’è dubbio che la UE non si comporta come un minimo comun denominatore tra i vari paesi, come una camera di compensazione. La UE pare avere la velleità di imporre le proprie regole a tutti. Lo ha fatto con la Polonia, paese cattolico, in cui il sentimento della popolazione è convintamente antiabortista; l’ha fatto con Orban, liberamente eletto, capo di un partito cristiano che forse dà un po’ fastidio a un’Europa che si definisce laica, ma che forse farebbe meglio a dirsi laicista. Ora, proprio nel momento in cui anche in Italia viene meno l’incontrastato potere del centrosinistra, esercitato al di là dei risultati elettorali, l’Europa inizia a storcere il naso e ad alzare il sopracciglio, come se la volontà degli italiani contasse meno dei tedeschi, dei danesi, dei francesi. È una mancanza di rispetto. Come possiamo sentirci parte dell’Unione Europea se questa non manifesta per noi lo stesso rispetto che nutre per potenze extra europee come gli Stati Uniti, o extra UE come la Gran Bretagna? E che credibilità possono avere, ripeto, le attuali critiche della UE e dell’Occidente nei confronti delle elezioni in corso nei territori occupati in Ucraina?
Il fatto che a Ghedi e ad Aviano ci siano decine e decine di bombe atomiche rende l’Italia un paese particolarmente a rischio?
«In realtà non siamo più a rischio degli altri. Che da noi ci siano delle basi importanti, a prescindere dagli ordigni nucleari, è cosa risaputa. Certo, l’Italia è in una posizione delicata sia perché appartiene alla Nato, che in questo momento è molto attiva contro la Russia, sia perché siamo nel Mediterraneo, un mare che è fonte di contese. Una delle ragioni di questa guerra, infatti, è proprio la volontà russa di preservare la propria presenza nel Mediterraneo tramite la sua storica flotta del Mar Nero, con base a Sebastopoli, in Crimea. Gli USA, invece, vorrebbero esattamente il contrario, escludere cioè la Russia dal Mediterraneo. Diciamo che l’Italia è a rischio anche per tutte le turbolenze che ci sono in nord Africa, e anche per questo avrebbe dovuto elaborare, non da oggi, uno strumento militare più efficace di quello che ha; perché se le Forze Armate funzionano, non è certo per l’interessamento dei vari governanti, ma per lo spirito di sacrificio e la professionalità dei Comandanti, che in addestramento si sono sempre addossati delle responsabilità molto superiori a quelle che normalmente avrebbero dovuto avere. La verità, molto semplicemente, è che l’Italia avrebbe bisogno di essere un po’ più concentrata sui propri interessi, invece di chiedere agli altri quali sono gli interessi leciti da difendere».
Putin ha da poco annunciato una «mobilitazione militare parziale». Sul fronte ucraino potrebbero essere inviati quasi trecentomila riservisti. È un’ammissione di debolezza o cos’altro?
«Intanto questa dichiarazione va inserita in un contesto più ampio. Ridisegnando il profilo delle ambizioni russe e alzando l’asticella, Putin, nel suo recente discorso, ha parlato delle elezioni negli oblast occupati, ha detto che le milizie delle repubbliche del Donbass verranno equiparate all’esercito russo, e infine ha parlato della “mobilitazione parziale”. Si tratta di trecentomila persone – non poche, il triplo dell’esercito italiano – con esperienza militare. In realtà, la mobilitazione è una cosa che non sorprende molto gli osservatori, la si attendeva da tempo. In fin dei conti l’Ucraina è da molto tempo che effettua mobilitazioni. Anche se non ci sono state grosse battaglie campali, tanto che i russi si sono ritirati in buon ordine, la penetrazione ucraina è stata importante, per cui la mobilitazione russa è divenuta non più rimandabile».
Nel richiamare i riservisti, Putin sembra aver fatto una scelta: molti sono coloro che vengono da aree asiatiche, ad esempio i ceceni, pochissimi i residenti di città come San Pietroburgo, specie se studenti. Un modo per non alimentare ulteriori proteste?
«È assolutamente possibile, anche se forse la questione è più banale. Anche noi abbiamo un criterio diverso nella chiamata alle armi: gli studenti hanno sempre avuto la possibilità di rimandarla, mentre chi lavorava doveva andare, anche a vent’anni. Un paese come la Russia, che non vuole limitarsi a sopravvivere ma che ha ambizione di grande potenza, non può sopportare interruzioni nel ciclo educativo delle proprie future classi dirigenti, interrompendo i loro studi e mandando una generazione di studenti a combattere».
Nella storia, in contesti di guerra, è accaduto spesso che soldati e comandanti abbiano richiesto l’aiuto divino per sbloccare situazioni disperate: da Marco D’Aviano nella battaglia di Vienna, a Pio V in quella di Lepanto. Crede all’irruzione del soprannaturale anche in una vicenda così lontana dal sacro come la guerra?
«Da cattolico praticante credo nell’intervento del divino nella vita di tutti i giorni come in situazioni intricate come la guerra. Siccome bisogna vincere volontà umane molto concentrate a distruggere l’Europa, a maggior ragione la speranza va riposta in un aiuto del Cielo. Tra l’altro la guerra è stata preceduta da uno scisma nella Chiesa ortodossa, senza il quale oggi le cose sarebbero forse meno difficili da sbrogliare. In ogni caso dobbiamo avere sempre fiducia nella vittoria delle forze del Bene su quelle del Male, iniziando da una cosa semplice: abbassare i toni e l’orgoglio di ognuno, in modo da sederci ad un tavolo e arrivare finalmente alla pace».
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