Galileo «eretico», la lettera «eretica» di Galilei, la scoperta della lettera «ribelle». A leggere i titoli dei giornali in questi giorni, a partire da quanto riportato dal sito della rivista Nature, pare che la pur importante missiva scoperta il 2 agosto scorso a Londra, in una biblioteca della Royal Society, sia la prova provata dell’eresia galileiana, che sarebbe costata la terribile «condanna» dello scienziato pisano. La scoperta è stata fatta dallo storico della scienza italiano Salvatore Ricciardo, dell’Università di Bergamo, che l’ha studiata con Franco Giudice, docente della sua stessa università ma bresciano d’adozione, e con Michele Camerota, dell’Università di Cagliari.
Ora, lungi dal voler negare l’importanza della lettera in questione (che tuttavia è l’originale di una già nota, Lettera a Benedetto Castelli, ancorché con diverse modifiche) occorre ricordare un punto fermo nella vicenda Galilei, che i titoli roboanti di questi giorni lasciano astutamente in disparte, vale a dire l’adesione convinta dello scienziato alla dottrina cattolica. Certo, non fu affatto un santo dato che convisse apertamente more uxorio con una donna che non volle sposare, ma dalla quale ebbe tre figli. Al tempo stesso, e la stessa lettera trovata lo conferma, fu un uomo dal carattere tutt’altro che pacato, responsabile di prese di posizione, e ancor più di toni, eterodossi.
Eppure Galileo non fu affatto un «eretico». Lo provano numerosi elementi, a partire dalla mite condanna ricevuta il 22 giugno del 1633 nel convento romano tenuto dai domenicani, udita la quale pare che lo scienziato abbia sussurrato un ringraziamento ai dieci cardinali del collegio giudicante, tre dei quali avevano votato perché fosse prosciolto. Era inoltre così «eretico», Galilei, che brevi preghiere affiorano qua e là nelle sue missive, e non solo quelle rivolte alla figlia suor Maria Celeste. Come quando, il 30 gennaio 1610, scrisse a Belisario Vinta: «Così infinitamente rendo grazie a Dio, che si è compiaciuto di far me solo primo osservatore di cosa così ammiranda, e tenuta a tutti i secoli occulta».
Insomma Galilei, apprendiamo da Galileo’s Daughter: A Historical Memoir of Science, Faith, and Love, libro della statunitense Dava Sobel, «credeva nella forza della preghiera e cercava sempre di conciliare il proprio dovere di scienziato con il destino della propria anima. Questo aspetto è testimoniato anche da una sua lettera in cui affermava che qualunque fosse il corso di una vita umana andava considerato come un dono sommo della mano di Dio».
Il presunto «eretico», inoltre, arrivò a scrivere frasi come queste: «In tutte le opere mie, non sarà chi possa trovar possa pur minima ombra di cosa che declini dalla pietà e dalla riverenza di Santa Chiesa». Non solo. Quando, ormai anziano, era praticamente cieco e non poteva più osservare l’amato cosmo, accettò quella dura condizione proprio grazie alla fede, affermando: «Questo Universo che io ho ingrandito mille volte si è ora ristretto al mio stesso cosmo. Così è piaciuto a Dio, così deve piacere a me».
Infine, invecchiato tra malanni e acciacchi, perseguitato dall’insonnia, quando a 78 anni spirò, Galilei era circondato dai suoi e fu una delle due figlie suore a raccogliere la sua ultima parola, che significativamente fu: «Gesù!». Tutto questo per dire – senza, lo si ripete a scanso di equivoci, voler smentire la portata della lettera galileiana trovata, né senza voler negare le tensioni storicamente intercorse tra l’Inquisizione e lo scienziato – tutto per dire, si diceva, che è profondamente errato immaginare Galileo «eretico», dal momento che da parte sua, pur umano e peccatore, mai rinnegò la sua fede né, tanto meno, il suo legame con quella Chiesa in cui, libri di storia alla mano, trovò davvero tanti amici.
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Il 3 luglio 1981 Giovanni Paolo II nominò una speciale commissione con il compito di studiare e di pubblicare tutti i documenti disponibili sul caso. I risultati del lavoro della commissione furono presentati dallo stesso Pontefice alla Pontificia Accademia delle Scienze il 31 ottobre 1992. Il rapporto chiarisce che nel 1616 e nel 1632 l ‘astronomia era in un momento di transizione e gli studiosi di Sacra Scrittura fecero della confusione in materia di cosmologia. Di fatto, Galileo non aveva dimostrato in maniera rigorosa il moto della terra, ma i teologi sbagliarono nel loro giudizio sui suoi insegnamenti (documentazione e commenti in Poupard, 1996).
Riportiamo alcuni passaggi centrali del discorso papale del 31.10.1992: «Se la cultura contemporanea è caratterizzata da una tendenza allo scientismo, l’orizzonte culturale dell’epoca di Galileo era unitario ed era contrassegnato da una particolare formazione teologica. Tale carattere unitario della cultura, che è in sé positivo e che sarebbe auspicabile anche oggi, fu una delle cause della condanna di Galileo. La maggior parte dei teologi non coglievano la distinzione formale tra la Sacra Scrittura e la sua interpretazione , il che li indusse a trasporre indebitamente nel campo della dottrina della fede una questione di fatto rilevante della ricerca scientifica» (n. 9). «A partire dal secolo dei Lumi e fino ai nostri giorni, il “caso” Galileo ha rappresentato una specie di mito [.]. Questo mito ha avuto un ruolo culturale considerevole; ha infatti contribuito a radicare numerosi scienziati in buona fede nella convinzione che ci fosse incompatibilità tra lo spirito della scienza e la sua etica di ricerca, da un lato, e la fede cristiana dall’altro. Una tragica incomprensione reciproca è stata interpretata come il riflesso di una opposizione costitutiva fra scienza e fede. Le chiarificazioni cui si è giunti grazie ai recenti studi storici ci permettono di affermare che tale doloroso equivoco appartiene ormai al passato» (n. 10).
Si segnala poi nel medesimo discorso che molte scoperte della scienza contemporanea sono così complesse che è difficile stabilire con certezza il loro grado veritativo, ma, nondimeno, ciò che di meglio si può sperare da una teoria scientifica è che essa sia almeno seriamente e solidamente fondata. (fonte: Disf)
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