«La Corte Costituzionale ha adottato la decisione di “autorimessione” della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 262, primo comma, del Codice civile, nella parte in cui, in mancanza di accordo dei genitori, impone l’acquisizione alla nascita del cognome paterno, anziché dei cognomi di entrambi i genitori. I Giudici intendono dunque pronunciarsi “in vece del popolo italiano”, sostituendosi al legislatore?».
Si esprime così al Timone l’Avv. Margherita Prandi (foto a lato), membro della segreteria nazionale del Centro Studi Rosario Livatino, esperta di diritto di famiglia, l’ordinanza della Corte costituzionale (n. 18) uscita giovedì 11 febbraio, in merito a una questione di legittimità costituzionale che era stata sollevata dal Tribunale di Bolzano.
Avvocato, la decisione della Consulta ha fatto molto scalpore, guadagnandosi titoli altisonanti sui media, che hanno rimarcato un passaggio, peraltro di un’ordinanza del 2006 (n. 61), secondo cui «l’attuale sistema di attribuzione del cognome è retaggio di una concezione patriarcale della famiglia». Innanzitutto, perché il cognome ha una funzione tanto importante?
«Il nome (composto da prenome e cognome – art 6 codice civile) è il principale mezzo di identificazione della persona nelle relazioni personali e sociali e appartiene alla categoria dei diritti tutelati anche costituzionalmente (art. 22 Cost). La legge, a tutela del minore, si preoccupa di definire le modalità di attribuzione del cognome, rimettendole innanzitutto ai genitori. L’art. 262 co. 1 codice civile prevede che “il figlio assume il cognome del genitore che per primo lo ha riconosciuto. Se il riconoscimento è stato effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori il figlio assume il cognome del padre”. La Corte costituzionale, con sentenza 21 dicembre 2016, n. 286, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della normativa vigente, nella parte in cui non consente ai coniugi, che concordemente lo richiedano, di trasmettere al figlio, al momento della nascita, anche il cognome materno».
Un’altra obiezioni, anche questa desunta da una vecchia ordinanza, è che l’attuale sistema «non è più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna». Qual è il suo giudizio?
«In base al principio di bilanciamento tra i diritti fondamentali, la scelta operata fino ad oggi dal legislatore contempera proprio la tutela del diritto della personalità e quello di uguaglianza. La disciplina attuale è esente da equivoci in ordine all’identificazione della persona e dei rapporti fondamentali. Al contrario, l’attribuzione del cognome di entrambi i genitori determinerebbe la necessità di un’ulteriore scelta, nel momento in cui il soggetto dovesse decidere quale dei propri cognomi attribuire al figlio, in aggiunta a quello dell’altro genitore. Se non si disponesse nulla, infatti, si determinerebbe una progressione geometrica dei cognomi in capo a un unico soggetto. Di contro, ogni eventuale regola preordinata a privilegiare l’uso di un cognome rispetto agli altri, genererebbe la violazione di quel principio di uguaglianza, che si vorrebbe tutelare. In sintesi, la soluzione prospettata dalla Corte non risolverebbe un problema, ma sarebbe prodromica a generarne altri»
Questa nuova ordinanza appare, a un occhio esterno, l’ennesimo attacco alla famiglia e alla tutela delle radici identitarie degli individui, come già il recente fatto di cronaca per cui il Ministro Lamorgese ha reintrodotto, sui documenti degli under 14, i termini “genitore 1” e “genitore 2”. Da esperta in materia, come interpreta tutto questo? Verso quale direzione si sta muovendo la giurisprudenza?
«Una decisione come quella prospettata si porrebbe nel solco dei provvedimenti che si stanno moltiplicando nel corso degli ultimi tempi e che appaiono orientati alla creazione di “nuovi diritti”. La Corte Costituzionale, qualora intervenisse con una propria decisione come già avvenuto per l’aiuto al suicidio e come rischia di accadere per la maternità surrogata, si sostituirebbe al legislatore, il quale, evidentemente, non intervenendo in una materia di propria competenza, ha operato una scelta molto precisa, vale a dire che non intende modificare la normativa esistente».
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