Dal palco è sceso esattamente quarant’anni fa. Febbraio 1976. Ma oggi uno stuolo di giovani e vecchi fan continua imperterrito a salire lungo la strada che porta all’incantevole eremo della Beata Vergine del Soccorso di Minucciano (Lucca). Lontano dalle luci del mondo è questo il nuovo “palcoscenico” di Claudio Canali negli anni Settanta leader del gruppo rock progressive Biglietto per l’Inferno e adesso monaco eremita secondo la regola di san Benedetto.
Chi l’ha visto scaldare il pubblico con quel look stravagante e quel caschetto di pelle da aviatore oggi stenta a riconoscerlo nell’austero saio. Eppure i due occhi vispi nella folta barba da profeta tradiscono la vivacità di fra Claudio che a 63 anni non rinnega la sua vena ironica: «C’è ancora chi vedendomi dopo tanto tempo mi dice: “Fai finta di fare il frate, ne stai inventando un’altra delle tue…”. Poi però mi interroga per ore cercando di capire chi mi ha cambiato la vita». Tutto è cominciato suonando il flicorno baritono nella banda musicale del suo paese, Molteno (Lecco). Poi la chitarra, il basso, la batteria, il flauto… Da qui al successo fu letteralmente una corsa: «Quando ero studente – racconta – facevo atletica leggera. Ai campionati italiani gareggiai anche con Mennea…E nel bus di ritorno dalle gare spesso si intonavano canzoni.
Lì qualcuno fu impressionato dalla mia estensione vocale e mi coinvolse nel gruppo pop-rock dei Gee. Iniziai a “bigiare” la scuola. I miei mi rimproveravano perché non portavo niente a casa ed eravamo cinque figli da sfamare. Arrivai a fare anche venti serate al mese in tutt’Italia». Dal 1973 al 1975 gli anni dell’esplosione anche all’estero come cantautore del Biglietto per l’Inferno, il cui album omonimo del 1974 è per la rivista Rolling Stone tra i migliori 100 dischi italiani di sempre. “Voce del diavolo” lo chiamava qualcuno, ma fra Claudio ora non può fare a meno di sorridere amaramente: «Molti all’inizio pensarono che fossimo una band satanica. Ancora adesso chi lo pensa non ha capito nulla.
La scelta di quel nome era per dire noi ti facciamo sentire canzoni che raccontano l’inferno di questo mondo: il terrorismo, la droga, l’emarginazione, il carcere. Certo risentivamo del clima sessantottino dell’epoca ed era facile essere strumentalizzati. Ma non ho mai aderito a manifestazioni politiche, né tantomeno alle proteste». Ai concerti arrivavano anche 10 mila persone e la band suonava con i migliori gruppi (Pfm, Area) e cantanti come Finardi, Battiato, Bennato. Il vero trascinatore del gruppo era sempre lui, Claudio Canali, con un abbigliamento che in fondo mascherava la sua timidezza: «Mi vestivo – spiega – come un principe di Galles tutto stropicciato, una rosa di plastica all’occhiello, un faz- zoletto da naso nel taschino, scarpe da tennis, e cravatta con molletta dei panni. Saltavo e correvo sul palco. Il giorno dopo mi divertivo a leggere i giornali: “Belli i momenti del cantante che finge…”. In realtà io facevo sul serio». Fama e vita da rockstar. Eppure c’era qualcosa che non andava: «Arrivavo a casa la sera e stavo malissimo. Non ero felice. Né le droghe che ho sempre rifiutato, né le relazioni con le ragazze potevano riempire il mio vuoto: non erano amori puri. Avevo bisogno di un’amicizia vera. Quando ero da solo stavo male.
Fu allora che mi fidai di uno che credevo mio amico e partii con lui per l’India. Ma in una delle feste a cui partecipammo misero probabilmente degli stupefacenti nel cibo e cominciai a star malissimo. Il mio compagno di viaggio fuggì. Mi ritrovai solo. Mi rubarono tutto e io stesso davo mance a tutti. Fui costretto a vendere anche la chitarra. Per tre mesi rimasi laggiù fino a quando l’ambasciata italiana mi rispedì a casa». Ma fu allora che spuntò una nuova consapevolezza: «Quando rientrai mi prese un forte senso di colpa verso la mia famiglia e coloro che mi conoscevano.
Andavo in giro e chiedevo scusa a tutti. Mi davano del matto: solo mia madre intuì che stava avvenendo un vero cambiamento in me. Ormai della band non volevo più saperne, nonostante la pressione dei compagni e anche di giornalisti stranieri. Una sera del febbraio 1976 salii sul palco e dissi a tutti che non avrei cantato più. Ne avevo abbastanza di quel mondo lì, di concerti in cui la gente brancolava come zombie tra fumo e alcol. Decisi di aprire un negozietto in cui lavoravo la pelle, ma facevo prezzi così bassi che fui costretto a chiudere. Andavo alla ricerca di risposte interiori che non trovavo. E così m’imbattei nella setta degli Hare Krishna. Per un anno e mezzo frequentai una loro comunità in Toscana guidata da un guru indiano. Mi vestivo come loro con casacca e pantaloni arancioni».
Decisivi furono allora alcuni incontri: «Conobbi una ragazza, consacrata a Maria, che quando parlava mi lasciava esterrefatto. Non avevo perso le mie radici cristiane e ogni tanto salivo al Santuario mariano di Valmadrera. Una volta ci andai vestito da Hare Krishna. La custode sbigottita per quell’abbigliamento mi mandò dalla persona che avrebbe potuto aiutarmi.
Era fra Mario Rusconi dell’Eremo di Minucciano. Ci andai subito e ne fui conquistato. La setta continuava a rimproverarmi. Ma io sentivo di non poter più lasciare Gesù. Avevo trovato Chi mi stava cercando. A 38 anni, ho iniziato il postulandato presso l’eremo e nel 1999 ho fatto la professione perpetua nella chiesa di Sant’Antonio a Valmadrera». Eppure all’inizio il passato era un macigno: «Non salvavo niente della mia vita precedente. Poi ho capito che Dio perdona e dimentica. E anche nelle mie canzoni di allora ho riconosciuto l’educazione cattolica della mia famiglia. Anche il brano più famoso Confessione riflette sul perdono che presuppone sempre il pentimento. Qualche mio amico di allora non si è meravigliato che fossi andato in monastero. Era un fuoco sotto la cenere».
Nel guardarsi indietro non ha nessun rimpianto: «La mia promessa dice il Signore è più grande di ogni fama. All’eremo posso coltivare i talenti nella pittura, nella scultura, nella poesia e nella musica. E poi non riesco a non cantare. La musica è prepotente. Ci sono il gregoriano, i salmi, c’è un bisogno incoercibile di “giubilo” come lo chiamava sant’Agostino».
E le corde dell’animo di fra Claudio vibrano vedendo centinaia di giovani salire all’Eremo: «Non vengono per caso. Qui trovano una comunità di fratelli che li vuole bene. Molti sono infelici. Gli hanno tolto il Paradiso, la speranza di una vita eterna. Per questo raccomando loro di andare sempre oltre e non altrove: se tu ascolti la voce del Signore, vai oltre gli ostacoli, i tuoi limiti. Altrove, vai solo dove vuoi tu. Ecco il potere della preghiera. Fa sì che Dio ti prenda in braccio. Dio è oggi la mia roccia, il mio rock».