Una delle due condanne eseguite ieri è avvenuta nella regione sud-occidentale di Asir. Ali Assiri, cittadino saudita, è stato giustiziato per aver accoltellato a morte un membro della propria tribù.
La seconda riguarda un immigrato pakistano, Mohammed Mokhtar, condannato a morte per traffico di eroina. Egli è stato ucciso nella città orientale di Dammam.
Per tutto il Ramadan, tempo di digiuno e preghiera musulmano, non si sono registrate esecuzioni; tuttavia, il boia è tornato a colpire per ben tre volte dalla fine del mese sacro per l’islam.
Attivisti e ong pro diritti umani sottolineano che nel 2016 il numero di esecuzioni risulta “di gran lunga maggiore” rispetto allo stesso periodo dello scorso anno.
Ai primi di gennaio Riyadh ha giustiziato 47 persone accusate di “terrorismo”; fra questi vi era pure il dignitario sciita Sheikh Nimr al-Nimr, figura importante di contestazione contro il regime saudita. L’uccisione ha originato uno scontro – non solo diplomatico – fra sauditi (sunniti) e Iran (sciita), che ha infiammato ancor più il già complicato quadro mediorientale.
La maggior parte delle condanne a morte nel Paese arabo vengono eseguite tramite decapitazione .
Da anni le principali associazioni per i diritti umani e molti governi occidentali si battono per imporre al regno saudita (sunnita wahabita) processi più equi ed esecuzioni meno crudeli. L’Arabia Saudita – in cui vige una stretta osservanza della sharia, la legge islamica – è l'unico Paese al mondo dove la condanna a morte può essere eseguita con la decapitazione in pubblica piazza.
La pena capitale nel regno è prevista per i colpevoli di omicidio, rapina a mano armata, stupro e traffico di droga, ma anche per stregoneria e sodomia. Non meno crudeli sono le condanne per crimini minori, come il furto e il reato di opinione, che oltre al carcere, prevedono il taglio della mano o del piede e la fustigazione in piazza.