Augusto Barbera, presidente della Corte Costituzionale, è stato il protagonista di una serie di stoccate con cui, nei giorni scorsi, non ha risparmiato le Camere, richiamando il Parlamento ad intervenire per riempire quelli che considera vuoti legislativi sul “fine vita” e sulle coppie gay. In particolare, Barbera, ha auspicato un intervento del legislatore che dia seguito alla sentenza Cappato sul fine vita, «ma che prenda anche in considerazione il monito relativo alla condizione anagrafica dei figli di coppie dello stesso sesso». Ne abbiamo parlato con l’avvocato Domenico Menorello componente del Comitato nazionale di Bioetica (CnB) e coordinatore del network ‘Ditelo sui tetti’.
Avvocato, l’Intervento del Presidente della Consulta, che ha esortato il Parlamento a legiferare su fine vita e figli di coppie gay non le è sembrato qualcosa di irrituale?
«È sembrato a molti tanto irrituale, quanto, per così dire, “nostalgico” di una concezione della magistratura che, come si teorizzava sin dagli anni ‘ 70, dovrebbe avere il ruolo di supplente al legislatore, interpretando direttamente la cosiddetta “coscienza sociale”. E questa idea che ci siano degli “illuminati” delle magistrature superiori a guidare il popolo è evidentemente sconosciuta a una democrazia matura, che, invece, conosce solo l’elezione di un Parlamento e, attraverso il Parlamento, l’interpretazione del bene comune».
Sul fine vita, peraltro, la Consulta si era già espressa chiaramente con la cosiddetta sentenza Cappato (242 del 2019), giusto?
«La Consulta indossa una giacca che tutti tirano dalla propria parte. Ma quel che è certo è che la sentenza 242 del 2019 dice con chiarezza che non ci può essere nell’impianto costituzionale un obbligo del Sistema Sanitari Pubblico di prestare la morte, né c’è un diritto a morire, perché la cultura costituzionale va verso un’antropologia che vuole curare e servire la fragilità, non scartarla.
La corte semplicemente individua alcune eccezionali circostanze, in presenza delle quali un gesto di per sé negativo, quello di aiutare una persona a morire, non viene eccezionalmente punito con il carcere. Inoltre, non è nemmeno vero che la sentenza 242 del 2019 dica al Parlamento cosa deve fare.
Il paragrafo 2.4 della stessa sentenza 242/19 recita anche che: «La disciplina potrebbe essere introdotta, mediante una mera modifica della disposizione penale di cui all’art. 580 cod. pen. Tutto ciò significa che la Corte non dice affatto al Parlamento che deve introdurre una prestazione sanitaria di morte, ma, anzi, afferma che è il Parlamento a dover scegliere quale delle tante opzioni assumere , dopo aver precisato che la nostra Costituzione vuole difendere la vita. In questo senso la stessa sentenza 242 ipotizza che il Legislatore può anche semplicemente introdurre nell’articolo 580 del Codice penale gli eccezionali casi in cui questo non è reato; in questo modo l’azione rimarrebbe dentro il giudizio di disvalore che l’art. 580 c.p. afferma verso una procurata morte di una persona. Invece, una legge che introducesse una procedura positiva del Servizio Sanitario che arrechi la morte a un malato, darebbe un giudizio pubblico di disvalore e abbandono della fragilità, che, ovunque è stato introdotto, ha pesantemente introdotto nel sentimento sociale l’indifferenza verso chi sta peggio».
Non crede che, sul cosiddetto fine vita, i diritti inattuati – su tutti quello alle cure e alle cure palliative – siano ben altri? Perché di questi pochi sembrano preoccuparsi?
«Perché siamo dentro un fortissimo condizionamento ideologico e antropologico. Si parte dal presupposto, non discusso, che il valore dell’uomo ci sia solo quando è capace di autodeterminarsi, cioè di successo. Per cui, quando c’è il limite, la malattia, si vuole affermare che non c’è il valore della vita. Questa non è una verità oggettiva, ma è solo una prospettiva ideologica. Vi sono altre prospettive ideali che affermano, invece, che la vita ha sempre un valore assoluto, perché ha sempre dentro una promessa, un desiderio di bellezza e di significato in tutte le sue circostanze, anche dolorose. E quindi se c’è questo desiderio, questo dà un valore assoluto alla vita, che quindi va rispettata e sottratta alla disponibilità di chicchessia. In questo senso, non esiste un diritto a morire, perché nessuno ha diritto di dire ad un altro che la sua vita non vale. Al contrario, se si pensa che nel cuore dell’uomo alberghi sempre un grido verso un significato, come peraltro è nell’esperienza di tutti noi, con tutti i nostri cari che stanno soffrendo, allora la priorità è ben altra: è la cura. Ed è emblematico che oggi siamo ancora al di sotto del 30% in Italia del fabbisogno per le cure palliative. Eppure, dove ci sono cure palliative scompare la domanda di suicidio. Ognuno dovrebbe pensare per sé stesso se ritenga più ragionevole essere scartato quando sta male ed è debole o, al contrario, curato ed abbracciato. Se facessimo questi famosi sondaggi chiedendo agli intervistati se preferiscano essere abbandonati o curati in caso di malattia, vorrei proprio vedere che esito vi sarebbe …
Quindi bisogna accorgersi che c’è una fortissima pretesa ideologica che vuole convincerci che la nostra vita vale solo se ha successo. Noi semplicemente pensiamo che questa non sia una prospettiva ragionevole. Perché il desiderio dell’uomo va ben in altra direzione! Le cure palliative e, in generale, il sistema sanitario sono gesti concreti che affermano il valore dell’uomo in ogni circostanza anche di fragilità».
Se il Parlamento evitasse di assecondare le richieste del Presidente della Consulta, cosa potrebbe accadere?
«Quello che dispiace della relazione del presidente della Consulta è che lascia in qualche modo intendere che, se il Parlamento non facesse quello che è auspicato dalla mentalità dominante, allora interverrebbe la Consulta, interverrebbero i giudici. Questa dinamica sarebbe molto grave. Perché nessuno, nemmeno i più autorevoli giudici, possono pretendere di guidare un popolo»
(Fonte foto: Imagoeconomica)
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