Si potrebbe chiamarla rivoluzione silenziosa, perché continua da decenni indisturbata; e nei prossimi anni non potrà che farsi più vasta e tangibile. Stiamo parlando dei «gray divorces», i divorzi grigi, termine coniato alcuni anni or sono dall’American Association of Retired Persons per indicare le rotture coniugali che interessano persone dai 50 anni in su. Un fenomeno inizialmente marginale ma che, da ormai qualche tempo, risulta in crescita e non solo negli Usa, dov’era stato inizialmente osservato, ma pure in Canada, Regno Unito, Giappone, Europa, Australia e India. Ovunque, insomma.
Al punto che, solo in ambito statunitense, si ritiene che da qui al 2030 i «gray divorces» triplicheranno, secondo quanto riportato pure da siti laicissimi e insospettabili di partigianeria cattolica quali Psychologytoday.com. Alla base di tale fenomeno, di cui si parla ancora poco ma che promette di diventare sempre più centrale – anche laddove, come negli Usa, i divorzi tra le coppie più giovani sono sotto controllo, o danno perfino segnali di riduzione -, sembra esserci l’incrocio tra l’attenzione alla felicità personale e all’autorealizzazione e l’invecchiamento demografico. Non solo.
Alcuni fanno notare che, se oggi arrivano a divorziare coppie anche sopra i 65 anni – rompendo l’incantesimo dei nonni, che nell’immaginario collettivo ancora rappresentano l’emblema della coppia duratura e solida -, è per via del mutato atteggiamento nei confronti dell’istituto matrimoniale, con il naufragio coniugale che, di fatto, è diventato qualcosa di più socialmente accettabile. Sarà. Per cercare di capirne di più Il Timone si è confrontato con Roberto Marchesini, psicologo, psicoterapeuta e autore di svariati libri centrati proprio sul rapporto di coppia.
Secondo lo studioso, molto di ciò che sta accadendo è dovuto a fattori di ordine materiale e ha una responsabilità quanto meno anagrafica ben precisa. «E’ stata la (mia) generazione che ha trovato il benessere materiale già conquistato dai materialisti della generazione precedente» spiega Marchesini, aggiungendo che però questi ultimi «almeno se l’erano sudato». Invece i protagonisti della generazione successiva, al centro dei «gray divorces», «hanno vissuto una vita relativamente facile e in continua crescita dal punto di vista qualitativo». Questo fino ad alcuni anni fa. Poi il nuovo millennio, con i suoi scossoni – dall’11 settembre 2001 alla crisi economica – ha, complice anche lo spaesamento valoriale del secolarismo, destabilizzato un po’ tutto.
«Ora non si cresce più», sottolinea in proposito sempre Marchesini, che fa presente come oggi si preferisca parlare «di decrescita felice». «Inoltre», aggiunge, «le promesse di felicità personale fatte dai genitori e dalla società non sono state mantenute». Ciò nonostante, secondo lo psicologo, quanti oggi hanno 50 anni e più «non se ne fanno una ragione e persistono nella loro ricerca edonistica». Va da sé, conclude infine lo studioso, che i matrimoni che implodono dopo una certa età «non hanno nulla dell’oblatività del matrimonio cattolico…».
In effetti, fa specie che proprio quando due persone, marito e moglie, iniziano ad invecchiare – e quindi hanno più bisogno di prima l’uno dell’altra, se non altro per assistersi, sostenersi, accompagnarsi alle visite mediche, ecc. -, inizino a divorziare o divorzino addirittura più di altri. Non serve pertanto essere cattolici ferventi né conservatori per giudicare tutto questo molto triste. E pensare che un antidoto al fenomeno esisterebbe, ed è proprio la riscoperta dell’«oblatività del matrimonio cattolico»; certo, per effettuare tale riscoperta corre anche essere in grado di fare autocritica, esercizio già difficile a livello individuale: figurarsi quando invece quella che servirebbe è un’autocritica generazionale.
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