The Zone of Interest, girato in tedesco, dal regista britannico Jonathan Glazer, ha appena vinto l’Oscar come miglior film straniero ma, nell’affrontare il racconto delle atrocità compiute ad Auschwitz da Rudolf Höss, detto “l’animale di Auschwitz” c’è una storia nella storia, che neanche il romanzo omonimo di Martin Amis – da cui è stato tratto, appunto, il film -, rivela o vuole rivelare: quella del pentimento avvenuto in punto di morte, del boia nazista.
La sua, una vita caratterizzata da contraddizioni incredibili, a partire dal clima familiare in cui “il boia” viveva: non solo un clima tranquillo, ma si racconta, addirittura da mulino bianco. Nella casetta di Höss, nessuno sapeva delle sue azioni efferate, nemmeno sua moglie, anche se, ironia della sorte, la tranquilla villetta confinava con il campo degli orrori di Auschwtiz-Birkenau: un vero e proprio cimitero di due milioni e mezzo di cadaveri, la maggior parte dei quali sterminati dalle torture e dagli esperimenti scientifici, fino all’invenzione del Zyklon B, probabilmente ideato dallo stesso Höss, che con quel gas riuscì a rendere più rapide le esecuzioni di massa.
Tutto questo può far pensare ad un personaggio folle, un comandante psicopatico e invece no: nel 2018, Ignacio Morgado, direttore dell’Istituto di Neuroscienze dell’Università Autonoma di Barcellona, pubblicò un articolo, dopo aver analizzato le memorie di Höss: «Rudolf Höss era un uomo sano, dotato di conoscenze e sentimenti, che spesso ragionava sul proprio comportamento e su quello degli altri e che possedeva un certo grado di empatia», scrive sorprendentemente Morgado. Una persona, si stenta a crederlo, addirittura “empatica”! Allora cosa spinse un uomo sano di mente come lui, a tanta ferocia? La risposta è semplice quanto spiazzante: l’ambizione e il potere.
Tuttavia nelle sue memorie si trovano squarci di prese di coscienza, ma che evidentemente, non bastavano, in quei momenti, a farlo desistere dai suoi folli propositi: «Quando lo spettacolo mi turbava troppo non potevo tornare a casa dai miei cari. Ho fatto sellare il mio cavallo e, cavalcando, ho cercato di liberarmi dalla mia ossessione. Spesso mi assalivano i ricordi degli incidenti accaduti durante lo sterminio; poi me ne sono andato di casa perché non potevo restare nell’ambiente intimo della mia famiglia. Dal momento in cui è avvenuto lo sterminio di massa ho smesso di sentirmi felice ad Auschwitz».
Eppure in tutto questo orrore c’è una storia nella storia, come già si diceva, che non viene ancora svelata dai media ed è quella dell’incontro salvifico di Höss con un gesuita polacco di nome Wladislaw Lohn. Il fatto avvenne quando “la belva di Auschwitz-Birkenau” era all’apice della sua terribile “fama”: si pensi che per mano sua, fu giustiziato un ebreo su sei, di cui 400.000 i soli ebrei ungheresi. In quel periodo così buio e terribile della sua vita, arrivò anche a sterminare un’intera comunità di gesuiti polacchi. Il “caso” volle, però, che al momento del rastrellamento, fortuitamente, mancasse il loro superiore.
Questi, quando venne a conoscenza dell’accaduto, spinto dai sensi di colpa per non aver potuto condividere la sorte dei suoi confratelli, decise di tornare al campo, autodenunciandosi, per cercare il martirio, seguendo i fulgidi esempi di Edith Stein e San Massimiliano Kolbe. Ma ecco che accadde l’impensabile: il gesto così coraggioso apparve eroico agli occhi di Höss tanto che ordinò che fosse risparmiata la vita di padre Lohn. Questo fu l’unico atto di umanità dell’ efferato comandante nazista, in quell’inferno.
Arrivò tuttavia, il momento in cui la giustizia fece il suo corso anche per Höss che, alla fine della guerra, verrà condannato alla pena capitale. Prima dell’esecuzione, avvenuta il 16 aprile del 1947, Höss era stato imprigionato nella città polacca di Wadowice. Lì assistesse ad un primo miracolo che probabilmente cominciò a toccare la sua coscienza: era sicuro che i polacchi si sarebbero vendicati, torturandolo ma – con sua grande sorpresa – ciò non avvenne. Anzi, nonostante molti di loro fossero mariti, mogli e figli, di persone giustiziate ad Auschwitz, ricevette un trattamento dignitoso.
Ciò cominciò ad aprire il suo cuore alla luce del pentimento. In cella, poi, dovette fare i conti con la sua coscienza di uomo e di cattolico, peraltro figlio di due genitori devoti che speravano che il figlio diventasse prete: torturato dai sensi di colpa, come ultimo desiderio, chiese di potersi confessare. Tuttavia voleva un solo sacerdote: l’unico che ricordava alla sua coscienza di essere stato “umano”, almeno per una volta nella sua vita. Così mandò a chiamare proprio padre Lohn che, all’epoca era cappellano del convento delle Suore della Divina Misericordia a Wadowice e che non esitò a rispondere alla sua richiesta.
E accade il miracolo: «Una confessione lunga e drammatica», dissero i pochi testimoni di quell’incontro, che si concluse con il «vi assolvo da tutti i vostri peccati» di padre Lohn. E i peccati erano tanti, almeno quanti i due milioni e mezzo di croci piantate per sempre nel campo santo. Il giorno dopo la sua confessione, prima di essere impiccato, Höss ricevette la comunione dalle mani di padre Ladislao: prese l’ostia tra le lacrime, rimanendo in ginocchio davanti a quel gesuita, nel quale, probabilmente vedeva i volti di tutti gli uomini, di tutte le donne e i bambini, ai quali aveva tolto la vita ingiustamente.
Un momento di straordinaria Grazia che arrivò a toccare anche la guardia presente lì, e che in seguito rivelò che fu uno dei momenti più belli e toccanti della sua esistenza. Il momento in cui, evidentemente, anche la guardia assistette al più grande di tutti i miracoli: quello dell’Amore che non meritiamo.
(Fonte foto: Screenshot YouTube, I Wonder Pictures/Pexels.com)
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