Nel primo affronta le differenze tra la comunione spirituale e quella sacramentale, mentre nel secondo esprime il suo parere favorevole all’astensione dei divorziati risposati dalla comunione sacramentale “invitandoli però a praticare la comunione in voto, la comunione spirituale”. Riportiamo di seguito alcuni passaggi importanti presenti nel secondo articolo del cardinale Ouellet.
(…) La ragione profonda della disciplina della Chiesa deriva dal legame strettissimo tra l’alleanza coniugale e il significato nuziale della comunione eucaristica: “il vincolo coniugale è intrinsecamente connesso all’unità eucaristica tra Cristo sposo e la Chiesa sposa (SC, 27; cfr. Ef 5,31-32)”. Quest’affermazione dell’Esortazione apostolica Sacramentum caritatisassume l’approfondimento teologico di san Giovanni Paolo II sul matrimonio e nel caso dei divorziati risposati riconferma la pratica pastorale della Chiesa “perché il loro stato e la loro condizione di vita oggettivamente contraddicono quell’unione di amore tra Cristo e la Chiesa che è significata ed attuata nell’Eucaristia” (SC, 29).
L’alleanza coniugale è in effetti il segno sacramentale del dono di Cristo sposo alla Chiesa sposa, dono attualizzato nella celebrazione dell’Eucaristia e ratificato pubblicamente con il cibarsi delle sante specie al banchetto della nuova Alleanza: “Prendete e mangiate, questo è il mio corpo”, “Amen!”. Se il segno sacramentale del matrimonio indissolubile è distrutto dalla rottura della prima unione e l’ingresso in una nuova unione oggettivamente adulterina, in qual modo le persone divorziate risposate possono rendere testimonianza pubblicamente e in verità del significato nuziale della comunione eucaristica? Nemmeno una conversione autentica fondata su un reale pentimento può rimuovere l’ostacolo d’una situazione oggettiva che contraddice la verità dei sacramenti del matrimonio e dell’Eucaristia. Ecco perché la Chiesa chiede ai divorziati risposati di astenersi dal comunicarsi sacramentalmente, invitandoli però a praticare la comunione in voto, la comunione spirituale nel senso che abbiamo più sopra definito.
Il limite loro imposto non è tributario d’una mancanza di misericordia che si sarebbe dovuta superare ben addietro nella storia; esso attiene alla natura stessa della Chiesa e al significato dei sacramenti nell’economia della salvezza. L’ordine sacramentale esprime in effetti “l’amore sponsale di Cristo e della Chiesa” (SC, 27), dove il battesimo è “il lavacro di nozze (cfr. Ef 5,26-27) che precede il banchetto di nozze, l’Eucaristia” .
Poiché il matrimonio sacramentale è “segno efficace, sacramento dell’alleanza di Cristo e della Chiesa” (ibid.), laddove l’alleanza coniugale è rotta, il rispetto dell’Alleanza con Cristo impone l’astensione dalla comunione sacramentale e incoraggia l’umile preghiera di desiderio del sacramento che non lascia il fedele senza frutto, come abbiamo detto. Se si desidera la comunione al Corpo di Cristo sposo con il quale si è oggettivamente in rottura a causa di un’altra unione, non si può dire Amen al significato di unità nella fedeltà supposto dall’atto della comunione sacramentale. Di conseguenza, ci si astiene dal comunicarsi sacramentalmente per non coinvolgere lo Sposo in una falsa testimonianza, cosa che costituisce offesa nei suoi confronti.
In breve, il limite imposto dalla Chiesa nel corso dei secoli alle persone divorziate e risposate non è frutto d’un giuridicismo o d’una tradizione sclerotizzata, esso incarna la sua obbedienza allo Spirito Santo che fa meglio comprendere ai nostri giorni la dimensione ecclesiale dei sacramenti e la natura profonda della Chiesa come sposa e Corpo di Cristo.