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Draghi e i condizionatori per giustificare la guerra
NEWS 9 Aprile 2022    di Valerio Pece

Draghi e i condizionatori per giustificare la guerra

«Preferite la pace o i condizionatori accesi per tutta l’estate?». Intorno al “ragionamento” di Mario Draghi – che la maggioranza degli italiani sta ancora cercando di elaborare – al credente vengono in mente le parole di san Paolo ai Corinzi: «Quando ero bambino, parlavo come un bambino, pensavo come un bambino, ragionavo come un bambino. Quando sono diventato un uomo, ho lasciato dietro di me modi infantili». In una guerra che potrebbe trascendere in un conflitto nucleare dagli esiti inimmaginabili, lo sforzo dovrebbe essere quello di evitare un «dibattito pubblico sequestrato da non domande» (così un azzeccato titolo dell’Huffigton Post).

Quello di Draghi però non è uno scivolone. Il premier italiano non è la sardina Mattia Santoni, consigliere bolognese del PD (in queste ore affranto dalla morte di due oche) di cui molti ricordano le supercazzole televisive spacciate per saggissime risposte. Draghi è l’uomo osannato da tutte le cancellerie del mondo, è colui che Politico ha definito «l’uomo più potente d’Europa», che il Financial Times ha descritto come «indispensabile per l’Italia», l’uomo grazie al quale, per il New York Times, «gli italiani stanno finalmente godendo di una nuova stagione di razionalità».

È evidente allora che quella del premier è una precisa linea di comunicazione, volutamente concisa, feriale, basica, ricattatoria. E terrorizzante. La stessa che ha funzionato per la pandemia («non ti vaccini, ti ammali, muori», o ancora: «con il Green Pass gli italiani hanno la garanzia di ritrovarsi tra persone che non sono contagiose») e che continua oggi: usi il condizionatore, muoiono gli ucraini. È una comunicazione stupefacente, su cui la politica avrebbe dovuto subito sorvolare, invece di cercare di spiegarci, come ha scritto Guido Crosetto, «che era una sintesi geniale» (il fondatore di Fratelli d’Italia ha poi chiosato: «Anche per il bene dei Re, occorre saper essere obiettivi»).

È da tempo che diverse voci si interrogano sull’“ethos infantilistico” che coinvolge certo linguaggio e che sempre più spesso fa a meno dei segni distintivi propri della maturità: dalla pazienza alla saggezza, dalla prudenza all’umiltà. Per Jacqueline Barus-Michel, sociologa francese e autrice di numerosi saggi, più che attraverso un discorso ponderato, oggi comunichiamo con semplici «flash», così il dibattito diventa «più povero, binario, simile al linguaggio del computer, mirato a scioccare».

Se è vero che le immagini, i video e i meme che impazzano sui social confermano che sia anche legittimo (oltre che liberatorio) trovare divertenti le uscite politiche di queste ore (qualcuno, sarcasticamente, ha azzardato ipotizzare che con un premier che ci vuole senza condizionatori e una vicepresidente della commissione europea, Margrethe Vestager, che chiede di fare poche docce e fredde, per ottenere la pace, la consegna è quella di puzzare tutti un po’ di più), è anche vero, e il dato purtroppo è ben più serio, che la storia ci insegna quanto certa comunicazione infantilistica possa diventare in tempo di guerra particolarmente seducente.

Un esempio? Lo slogan ricattatorio che nel ‘40 Mussolini utilizzò per giustificare l’entrata in guerra («Mi serve qualche migliaio di morti per sedermi vincitore al tavolo della pace») si rivelò un catastrofico fiasco: furono oltre mezzo milione gli italiani che persero la vita. Anche per l’oggi, una comunicazione tesa a favorire il dato semplice, facile, veloce, conduce più facilmente verso soluzioni politiche assolutizzanti e pericolose. Perché a differenza della decisione bellicista, la diplomazia è arte faticosa e complessa, ma è l’unico sforzo che paga.

Il parallelo pace-aria condizionata, tra l’altro, non tiene conto di molteplici altri aspetti. Anche al di là dell’aver totalmente ignorato gli appelli di Papa Francesco (tacciato addirittura – lo scrive un costernato Massimo Borghesi – di «insensibilità»), e anche al netto della volontà degli italiani (che nei sondaggi, malgrado la narrazione unica, continuano a dirsi contrari sia all’embargo sul gas, molto caro invece agli Usa, sia agli aumenti delle spese per gli armamenti), rinunciare al gas russo vorrebbe dire mettere completamente al tappeto l’economia italiana, bloccare le imprese e impedire così il sostentamento di migliaia di famiglie. A ribadirlo sono ormai in moltissimi: dagli analisti geopolitici (da ultimo Lucio Caracciolo, direttore della rivista Limes) ai politici tout-court (chiarissimo, su Milano Finanza, l’ex sottosegretario al ministero per lo Sviluppo economico Michele Geraci).

Non si tratta di fare un «digiuno energetico» in nome della solidarietà (come scrive il teologo Giuseppe Lorizio), ma di guardare la realtà da adulti. In quest’ottica, la deriva infantilistica della compagine di Governo appare lampante sia alla vecchia sinistra, sia alla Chiesa profonda (meno alle correnti progressiste). Due esempi. Barbara Spinelli, storica giornalista proveniente dal PCI, riguardo al segretario piddino perennemente in assetto da guerra, si è così espressa: «Pochi sono i politici che come Enrico Letta esigono addirittura il blocco immediato delle importazioni di gas e petrolio russo (c’è qualcosa di infantile in Letta, come non fosse completamente adulto. Gli manca il pensiero sequenziale, il calcolo delle conseguenze concrete di quello che dici e fai […])».

Dall’altra parte, il vescovo di Taranto mons. Filippo Santoro, ricorda quanto la Chiesa comprenda il diritto all’autodifesa «fino a quando essa non crei un male maggiore di ciò che si trova a contrastare». Punteggiando sapientemente il tema di una «bomba atomica che non fa più paura», come vuole la profezia di Dino Buzzati ripescata dal Timone, monsignor Santoro, nella lettera ad Avvenire, esorta a vigilare affinché «la giusta difesa non generi un male maggiore e un equivalente desiderio di annientamento del nemico, persino con armi atomiche».

 


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