Nella cattedrale di San Giuseppe in Abu Dhabi è stato ricordato pochi giorni fa un particolarissimo centenario: la presenza dei cappuccini toscani in quello che oggi è il vicariato apostolico dell’Arabia del Sud. Nato come viceprefettura apostolica di Gedda e subito dopo di Aden, affidata ai servi di Maria (1841) e poi ai cappuccini, l’attuale vicariato è passato attraverso peripezie d’ogni genere, comprese due guerre civili.
L’affidamento del vicariato a una particolare provincia di religiosi, in questo caso a quella Toscana nel 1916, si è rivelata un’iniziativa favorevole per lo sviluppo stabile della Chiesa perché ha sostanzialmente garantito un flusso costante di missionari.
Oggi le celebrazioni si svolgono, oltre che in inglese e in arabo, in malayalam, konkani, tagalog, francese, italiano, tedesco, cingalese e tamil. «Qui da noi — spiega monsignor Paul Hinder, vicario apostolico dell’Arabia meridionale (Emirati Arabi Uniti, Oman e Yemen) — il giorno festivo è il venerdì: così le messe festive si celebrano non soltanto la domenica, ma anche il giovedì sera e il venerdì. E sono le più frequentate. Ogni settimana si raduna nella nostra chiesa una folla che qualsiasi parroco europeo oggi sognerebbe. A Natale e a Pasqua la folla è impressionante, tanto che spesso è necessario utilizzare anche i locali della scuola, l’ampio sagrato della chiesa e i campi sportivi retrostanti, posizionando molti maxischermi». Una situazione, aggiunge, forse «difficile da capire per chi non lo vede di persona: chiese gremite, grande entusiasmo. Una chiesa vitale, immagine della cattolicità. Eppure viviamo in una situazione di forte instabilità. Non abbiamo la certezza che ciò che facciamo oggi possa costituire una base per il futuro. Un vero paradosso. Secondo gli ultimi dati, gli abitanti degli Emirati sarebbero oltre 5 milioni, con un milione e mezzo di cattolici. Solo a Dubai essi sarebbero quasi 300.000».
La fotografia della Chiesa d’Arabia oggi ha davvero del sorprendente. Qui infatti, per ragioni storiche, sociali ed economiche, si è coagulata una comunità cristiana numerosa, multirazziale e quanto mai variegata. «Un quadro esauriente della presenza cattolica — spiega monsignor Hinder — non lo possediamo. La cifra convenzionale è un milione e 500.000, ma penso siano molti di più. Secondo le informazioni dell’ambasciata di Manila in Arabia Saudita, i cittadini filippini sarebbero circa un milione. Se applichiamo la percentuale che ci è stata indicata dalla Conferenza episcopale filippina, l’85 per cento sono cattolici. Senza contare gli indiani». Questo, sostiene, è un altro paradosso. Infatti, «la maggior parte dei cattolici si trova in Arabia Saudita, dove non si può lavorare liberamente. Negli Emirati e negli altri Paesi del Golfo il panorama è diverso perché c’è una situazione di sostanziale libertà religiosa, pur in un quadro di regole ben definite».
Monsignor Hinder si riferisce alle parrocchie aperte in Bahrain, nel Qatar, nei sette Emirati e nell’Oman. Ogni emiro è libero di fare la sua politica religiosa e si vivono, perciò, condizioni diverse a seconda dell’entità politica in cui si lavora. Aggiunge il vicario apostolico: «I problemi maggiori sono quelli che riguardano il 75 per cento delle persone che si trasferiscono nel Golfo con l’intenzione di tornare un giorno a casa o di emigrare nuovamente verso Stati Uniti, Canada o Australia. La Chiesa non ha un nucleo stabile, ma solo fedeli giovani».
Così, le chiese sono gremite; 30.341 bambini frequentano il catechismo; 21.047 giovani (di cui 5.637 cattolici) studiano nelle scuole affidate alle suore; le associazioni ecclesiali e i gruppi di preghiera sono molti e molto attivi. Tuttavia, afferma monsignor Hinder, «ci sono problemi che non lasciano tranquilli, come la crescente tratta delle donne; la difficoltà ad avere il rinnovo del permesso di soggiorno; la difficoltà di raggiungere tutti i fedeli sparsi nell’immenso territorio. È difficile, inoltre, districarsi tra gli interessi e le sensibilità dei diversi gruppi nazionali senza provocare tensioni e incomprensioni. Il numero dei sacerdoti è limitato (78) e non è facile aumentarlo per la difficoltà di avere i visti necessari. Eppure avremmo bisogno di preti che parlino diverse lingue. Anche perché i fedeli vivono dispersi, lontani dalle parrocchie; molti lavorano nei villaggi che spuntano in pieno deserto, sulle piattaforme petrolifere. Molti non hanno mezzi di trasporto o non sono in grado di pagare il biglietto o non ottengono il permesso dai rispettivi datori di lavoro».