Che certi pregiudizi sulla condizione delle donne nella Chiesa andrebbero meglio soppesati, lo avevano già dimostrato alcuni saggi del volume Quando la Fabbrica costruì San Pietro (Il Formichiere, Foligno, 2016).
Ma l’“affondo” è giunto con il libro Le donne nel cantiere di San Pietro in Vaticano. Artiste, artigiane e imprenditrici dal XVI al XIX secolo (Il Formichiere, Foligno, 2017), che a distanza di tre anni vale ancora un’analisi, perché il colpo che ha dato a un certo immaginario collettivo e storiografico è ancora ben lungi dall’essere stato assorbito. Ma d’altra parte i fatti sono fatti, e alla loro luce ogni altra teoria diventa sterile. Perché la storia che raccontano i saggi inseriti nel volume, scritti da esperti storici dell’arte, dell’architettura e del restauro, è basata sui documenti rinvenuti nell’Archivio della Fabbrica di San Pietro, conservato nei meandri dei sottotetti della Basilica e di cui le valenti curatrici del volume, Simona Turriziani e Assunta Di Sante, ne sono rispettivamente Responsabile e Vice-Responsabile.
Già l’ordine cronologico e tematico adottato dalla ricerca indica la continuità nel tempo del contributo femminile alla costruzione della Basilica, e la varietà delle mansioni svolte.
Ma come mai così tante donne attive in un cantiere edilizio, in secoli in cui altrove il lavoro femminile non era poi così diffuso? Il motivo sta nella lungimirante politica assistenziale adottata dalla Fabbrica di San Pietro fin dalla sua nascita nel 1506, e che oltre a porre qualche dubbio sull’originalità delle moderne lotte sindacali, superava di gran lunga per umanità e retribuzioni le condizioni lavorative contemporanee di altri paesi occidentali. Specifiche disposizioni, infatti, tutelavano la sopravvivenza del nucleo famigliare del lavoratore deceduto o ferito, facendogli subentrare nella stessa mansione i figli maschi, o la moglie e le figlie femmine. L’unica condizione richiesta era la stessa qualità di servizio e di prodotto già a suo tempo forniti da chi si andava a sostituire. Ciò significa che per la Fabbrica se il nuovo lavorante fosse un uomo o una donna era questione irrilevante, perché la differenza stava nella qualità del fare, non nel genere. E infatti le donne nel cantiere di San Pietro godevano di una sostanziale parità economica rispetto agli uomini già secoli fa. Mentre in altri paesi europei o stati italiani il loro salario era decurtato del 50%.
La prima importante conclusione è: quella parità di genere sul lavoro per cui ancora oggi si sta lottando era una prassi già attuata nel cuore della Chiesa di Roma più di cinquecento anni fa. Niente di nuovo, quindi, basta guardare al modello del passato.
E un modello di modernità sono anche le figure di donne che emergono da queste storie, esemplari per tenacia, intraprendenza, spirito imprenditoriale, coraggio e amore famigliare. A partire da chi aveva ereditato mansioni dure e faticose dai loro padri o mariti, come le “provvisioniere”, che fornivano mattoni, gesso, calce, funi e ferramenta, o le “carrettiere”, che trasportavano sui carri pietre e legni da costruzione. Fondamentale era anche il lavoro delle “capatrici” di smalti, che con le mani ferite e inaridite dalla polvere frugavano tra i calcinacci dell’antica Basilica, per recuperare le tessere di mosaico da impiegare nelle nuove commissioni. Mentre senza paura doveva essere la “vetrara” Giovanna Jafrate, capace di fornire e coordinare il montaggio delle vetrate della Basilica ad altezze vertiginose.
Altre donne invece si erano guadagnate il posto vincendo una vera e propria “gara d’appalto”, oppure battendo una feroce concorrenza, per conservare la licenza dei propri padri. Come le “ferrare” sorelle Palombi, al cui soldo lavoravano diversi mastri fabbri, tutti uomini naturalmente. O la “stampatora” Paola Blado, dalla cui tipografia uscivano tutti i documenti ufficiali della Fabbrica e della Camera Apostolica. O l’intagliatrice di legno Lucia Barbarossa, attiva sia nella Basilica che anche nei sontuosi palazzi di importanti famiglie romane, come i Borghese, e i Colonna. Mentre nella sua impresa la “cristallara, e fabricatrice de smalti” Vittoria Pericoli fondeva le “pizze” di vetro colorato per i mosaici, riconosciute come perfette da una severa commissione che ne doveva valutare la qualità.
Emblematico e quasi iconico, infine, è il caso della celeberrima intagliatrice di lapislazzuli Francesca Bresciani, collaboratrice del Bernini nella realizzazione del Tabernacolo per la cappella del Santissimo Sacramento, e che negoziò con il Cavaliere la retribuzione più appropriata per le proprie competenze.
Ci mancano solo i volti di queste donne, ma ecco l’idea di una copertina disegnata ad hoc, e l’apertura di ogni saggio con splendidi dettagli fotografici delle Virtù dei monumenti sepolcrali dei papi in Basilica. Mai soluzione più consona, per evocare la presenza di donne che virtuose lo furono davvero.
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