Ancora pochi giorni e gli elettori neozelandesi saranno chiamati a pronunciarsi su un referendum di portata storica: quello con cui potranno accogliere o rigettare la legalizzazione dell’eutanasia come prevista dal ddl approvato in Parlamento. Questo perché nel novembre 2019 i parlamentari della Nuova Zelanda avevano sì approvato l’End of Life Choice Act 2019 con un voto di 69 favorevoli e 51 contrari, ma una maggioranza non così schiacciante ha reso necessaria la consultazione referendaria in programma, appunto, per il 19 settembre.
Ebbene, in tale contesto – con la «dolce morte» che in terra neozelandese è ancora illegale, ai sensi della Sezione 179 del New Zealand Crimes Act del 1961 – c’è una voce forte e commovente che si sta levando contro la legalizzazione della morte on demand: è quella di Vicki Walsh, moglie e madre di 43 anni. Chi è costei? Una donna a cui nel 2011 è stato diagnosticato un cancro al cervello, con cui tutt’ora convive. In genere quelli con la malattia della Walsh muoiono al massimo entro 14 mesi dalla diagnosi. Non hanno scampo.
Lei dopo nove anni, grazie a terapie indovinate e ad una gran voglia di vivere, è ancora attiva e risiede vicino a Palmerston North con suo marito e due figli adulti. Una storia che fa pensare dato che la legge che la Nuova Zelanda rischia di approvare consentirebbe ai malati terminali, a cui cioè vengono concessi sei mesi o meno di vita e che stanno vivendo una sofferenza insopportabile, l’opzione di morire con assistenza medica. «Ma io sono ancora qui», dice la Walsh, «anche se mi è stato detto che non c’era più niente da fare».
E pensare che la donna all’inizio voleva pure lei, in ragione della sua condizione gravissima, l’eutanasia. Invece oggi, dopo anni, è contenta di essere ancora viva, anche perché diversamente non avrebbe potuto vedere i suoi nipoti crescere. «Oggi amo la mia vita», dichiara la Walsh, «sì la amo». Di qui il suo impegno contro l’approvazione referendaria dell’End of Life Choice Act 2019, legge che considera sbagliata soprattutto alla luce di un rischio di coercizione, di sostanziale induzione a farla finita.
«La questione della coercizione è una delle mie maggiori preoccupazioni riguardo a questo disegno di legge. La gente dice o pensa che non sarebbe mai successo, ma abbiamo già un problema di mancanza di rispetto se non di abusi sugli anziani in questo paese», ha spiegato la donna, facendo presente che, con la «dolce morte», le persone malate o anziane verrebbero automaticamente a sentirsi «un peso».
Ora, posto che la questione anche bioetica sull’eutanasia è assai più articolata e comprende anche altri aspetti, non c’è nulla da dire: la signora Vicki Walsh ha colto perfettamente nel segno rispetto a quello che è il vero problema di ogni legislazione eutanastica, ossia il clima culturale mortifero che viene a crearsi, con le persone più fragili e malate che vengono sempre più guardate e quindi a sentirsi come «un peso».
Senza poi dimenticare un fatto, e cioè che non è per nulla vero che ad essere favorevoli all’eutanasia, o peggio a chiederla, siano le persone gravemente malate stanche di soffrire. La testimonianza di questa donna neozelandese, a cui non resta probabilmente tanto da vivere, ne è un esempio. Ma abbiamo anche dei riscontri in letteratura su questo. Basti pensare ad una ricerca apparsa sul British Medical Journal Open su 168 individui affetti dalla micidiale sindrome locked-in – completa paralisi dei muscoli volontari, si riescono a muovere solo gli occhi -, che ha visto come queste persone esprimano pensieri o intenzioni di morte solo nel 7% dei casi. Non resta quindi, per i neozelandesi che hanno ancora a cuore i valori fondamentali, che riflettere, da qui al giorno del referendum, sulla testimonianza e soprattutto sulle parole di Vicki Walsh, a partire dal suo toccante: «Oggi amo la mia vita, sì la amo».
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