Nel giorno dell’uscita del docufilm sulla vita di don Oreste Benzi, (“Il pazzo di Dio”), il Timone ha contattato Gianpiero Cofano, colui che ha passato più tempo con il grande apostolo della carità nei suoi ultimi anni e oggi segretario generale della Comunità Giovanni XXIII. Ne è uscita una lunga intervista che tratteggia da vicino la figura del sacerdote del quale, nel 2025, ricorreranno i 100 anni dalla nascita.
A 17 anni dalla morte esce un docufilm su don Oreste Benzi, cosa deve aspettarsi uno spettatore davanti a un titolo come “il Pazzo di Dio”?
«Se don Oreste fosse ancora vivo si vergognerebbe, ma sarebbe anche contento perché è davvero pazzo di Dio. Per qualsiasi cosa che fosse chiaramente servizio all’umanità su questa terra, ma secondo l’idea di Dio, lui era contento. Non per sé stesso, ma per quello che poteva realizzare in nome e per conto di Dio. Quindi anche lo spettatore che si trova di fronte immagini di un prete di altri tempi, si interroga; perché non ce ne sono più in giro, oggi; me ne vengono in mente solo un paio. È una figura che il giovane di oggi dovrà cercare, dovrà documentarsi per capire chi erano questi preti sociali. Don Oreste era ancora riconoscibile, lo si riconosceva anche da come era sempre vestito, innamorato della sua tonaca veramente lisa che indossava sempre. Solo quando andava in Africa, sud America e Asia se la toglieva, per il gran caldo e metteva il clergyman. Ci teneva a mostrarsi con il suo segno distintivo per comunicare a quanti lo incontravano di essere un prete di questa Chiesa, “in missione per conto di Dio” su questa terra. Forse gli spettatori, soprattutto i giovani, troveranno che è una cosa di 50 anni fa e si chiederanno: ma esistevano preti così? Era un personaggio di altri tempi; io ho fatto il suo assistente per una decina d’anni, abbiamo girato l’Italia e il mondo, per incontrare Capi di stato, ministri, alti prelati… Ma nello stesso giorno in cui andavamo dal Presidente della Repubblica o dal Ministro dell’Interno capitava che mi dicesse: “Andiamo a fare un giro per vedere la situazione in strada?”. Passava dal ministro alla ragazza in schiavitù lungo le strade. Usciva stanco dalla macchina e cercava di incontrare gli ultimi. Nei nostri viaggi eravamo puntualmente in ritardo, ma se incontrava un povero che gli tendeva la mano, che chiedeva, allora si fermava e mi diceva: “Portiamolo al bar, offriamogli qualcosa di caldo”. Non dava mai l’euro o le 10.000 lire soltanto, perché voleva condividere qualche minuto di vita con loro, accompagnandoli al bar, prendendo qualcosa di caldo insieme a loro. Gli ricordavo che eravamo in ritardo per l’incontro con una personalità istituzionale, ma lui rispondeva: “Sì sì, magari così facciamo meno anticamera!”. Che era come dire: è più importante il ministro di questa persona per terra infreddolita e affamata? prima venivano i poveri e gli ultimi, poi veniva il ministro. Lui usava modi “polari”, andava giù pesante in alcune occasioni, ma unicamente in nome e per conto dei poveri che voleva rappresentare. Oggi sono segretario della Giovanni XXIII, ma sono anche amministratore di due consociate del gruppo Teddy per la Croazia e la Slovenia (Teddy è il gruppo del settore abbigliamento nato a Rimini e fondato da Vittorio Tadei, grande amico di don Benzi, ndr). Per questo ho potuto vedere il loro legame, la loro amicizia. Ecco, per me Vittorio e don Oreste sono il modello di amicizia. Il loro legame e la reciproca contaminazione, non solo dal prete buono nei confronti dell’ imprenditore illuminato, ma anche viceversa, sono state credo una delle cose che più ha fatto maturare sia Teddy come impresa (e Vittorio come imprenditore), sia don Benzi e la comunità. C’è un aneddoto che non ho mai raccontato: quando ci fu il funerale di don Oreste, non eravamo preparati. Per accogliere tutte le persone che avrebbero voluto partecipare prendemmo in affitto tutta la vecchia fiera di Rimini; parteciparono in circa 25.000. Vittorio Tadei fu tra i primi ad arrivare dopo la morte di don Oreste, alla quale io ero presente. A un certo punto ci troviamo in auto insieme io e lui mi dice: “Quanto è costata tutta ‘sta roba? mandami il conto perché stavolta non mi può più fregare”. 24 ore prima di morire, infatti, eravamo andati a cena insieme, eravamo circa sei, sette persone, tra cui anche Vittorio e Kristian Gianfreda, il regista del film; il 31 ottobre è stata “l’ultima cena” di don Oreste. Una tradizione che continua sino ad oggi, sempre allo stesso ristorante, allo stesso tavolo e fino a che è stato in salute partecipava anche Vittorio. Quella sera don Oreste fece una mossa falsa, si alzò per andare in bagno e poi passò a pagare il conto, ma Vittorio non voleva assolutamente, anche perché, se presente, lo pagava inevitabilmente lui. Al funerale disse :“Sarà mai che proprio l’ultima cena mi ha fregato!”. E così saldò il conto dei funerali: pagò una cifra enorme e volle pagare tutto, per dirti il legame che c’era tra loro. Quando c’era un problema, Vittorio c’era in maniera non discreta, ma segreta. Molti anziani hanno l’abitudine di tenere i santini nel portafoglio, Vittorio ne aveva un’altra: lui ed io ci vedevamo due, tre volte a settimana a messa presso la parrocchia di don Oreste. Nel suo portafogli aveva un bel pacchetto di assegni, assegni di don Oreste che glieli dava per restituirgli i soldi dicendogli “ti dico io quando incassarlo”; Vittorio non li ha mai riscossi, assegni di anni, ce n’era in lire e in euro, con cifre innominabili. “Quando io vado su, andrò da san Pietro e prima di fare i conti, aprirò il portafoglio e gli dirò: possiamo scontare questi assegni mai incassati di don Oreste prima di fare i conti dei miei peccati?”».
Molti lo ricordano nel salotto TV di Bruno Vespa a sparigliare le carte su temi controversi come la prostituzione, le stragi del sabato sera o l’aborto, e la droga. Quanto manca oggi nel dibattito pubblico una figura come la sua?
«Una volta in cui era ospite, nel salotto di Vespa c’era anche la ministro Turco. Quando tocca a lui, al suono del campanello il portiere gli apre la porta e lui entra col dito puntato dicendo: “Io non posso tacere!”, per quello che era stato detto prima, perché i politici presenti discutevano della legalizzazione della prostituzione. Non aveva paura. La Chiesa, ahimè ha perso appeal, ha perso testimoni credibili o meglio non mi pare di riconoscerne così tanti di preti di strada, di preti sociali, l’unico che è rimasto è il presidente di Libera, don Luigi Ciotti. Quindi sì, manca una figura come la sua e non credo che ce ne saranno più, seppur ci sono tantissimi sacerdoti in giro per l’Italia e per il mondo che sono martiri della carità, di cui nessuno sa niente e arrivano anche a perdere la vita».
Un piccolo dettaglio: nel film ci si muove spesso in macchina. Ho sentito dei proverbiali spostamenti di don Oreste in macchina, tra rosari sgranati e fermate inattese, come era don Benzi passeggero? (ride! ndr)
«Passava metà della sua vita in auto, se non di più: in auto dormiva, mangiava, studiava, scriveva, pregava. A casa ci stava qualche ora, il tempo di lavarsi e cambiarsi e ripartire. L’auto era la canonica di don Benzi. Nelle pause in autogrill capitava che dicesse: “Mi porti un cappuccino che finisco questa lettera?” In auto confessava anche; faceva fino a 2000 km in un giorno, e c’era una staffetta di autisti, in tanti ci davamo il cambio e molti ne approfittavano per confessarsi. Pregava il rosario, magari prima di un incontro pesante e affidava tutto nelle mani della Madonna: “io sono uno che la stuzzica, chissà che mi dia ascolto”. Per lui il rosario era la preghiera più semplice e ripetitiva, la preghiera dei poveri. Io gli dicevo che mi distraevo recitandolo anche perché guidavo a forte velocità: “Non ti preoccupare, la Madonna ascolta lo stesso”. Don Oreste a secondo di chi aveva di fronte modificava il suo linguaggio verbale. Se era col povero parlava in dialetto, in maniera semplice, perché i poveri se no “li intortiamo” (espressione romagnola, che significa ingannare, turlupinare, ndr). Ma se aveva a che fare con un ministro sapeva trattare con lui, era un uomo di grande cultura. Una volta ho assistito ad un incontro in cui dialogava con un filosofo: ha parlato un’ora intera e non ho capito nulla. Non faceva il saccente, si adattava sempre all’interlocutore che aveva di fronte».
Il film esce proprio il 31 ottobre, un’altra data interessante, visto che la festa di Halloween non era proprio una ricorrenza interessante per don Oreste, cosa diceva al proposito?
«Diceva che non ci appartiene e che crea legame con l’esoterico e tutta una serie di mondi pericolosi. L’esoterismo purtroppo ha preso molto piede negli ultimi anni e arrivano tanti messaggi fuorvianti che per bambini e giovani rischiano di instillarsi nel subconscio e creare danno; poi ci lamentiamo quando escono storie di sette sataniche e simili. Sicuramente non approvava, diceva che la vera festa per noi è il primo di novembre. Però il 31 di ottobre, la sera precedente alla sua morte – è morto alle due e 22 del due di novembre -, nonostante avesse già i sintomi dell’infarto, festeggiò anche lui: andò discoteca nella diocesi di san Marino con l’allora vescovo – monsignor Luigi Negri – di San marino dell’epoca. Diceva che dobbiamo cercare poveri e giovani dove sono e dove si riuniscono loro. Così i giovani andiamo a trovarli dove si aggregano, nei pub, nelle discoteche. Quella sera, discoteca strapiena di giovani, d’accordo col dj e la direzione ha fatto fermare la musica e si è messo a parlare di Dio col linguaggio dei giovani. A 24 ore dalla morte festeggiò secondo un’altra logica. Andava ovunque, anche in occasioni e in luoghi di perdizione, nei bordelli del sud America: è proprio lì che bisogna andare!, diceva. Papa Francesco parla di periferie sociali ed esistenziali, lui lo aveva capito 40 anni fa; in parrocchia c’è stato poco perché andava in giro per tutti i Bronx dell’umanità».
Quante sono le opere che don Oreste continua in qualche modo a guidare da lassù?
«Nessuna, “io sono l’asino di Dio”, diceva. Si sentiva come l’asino che portava Gesù. Era un uomo che dava tanta fiducia anche all’ultimo “scappato di casa”. Non siamo oggi in 45 paesi del mondo con circa 600 strutture di accoglienza perché lui guidava, ma perché è una comunità fatta tutta sulla condivisione diretta. Don Oreste l’affidava e si fidava anche di gente appena uscita dal carcere o a fine percorso di disintossicazione. Diceva: “la Comunità è nelle mani di Dio, ma intanto partiamo, se devo trovare quello preparato o altro con tutte le credenziali giuste non lo trovo, mentre questa persona è disposta ad andare, il resto lasciamolo fare al Signore. La comunità è del Signore non è di don Benzi né del Consiglio, ma è di Dio, non mettiamoci a fare i nostri calcoli umani: interpretiamo i segni che il Signore ci manda e traduciamoli nelle opere, nella rimozione delle cause dei problemi, etc.”. Per questo don Oreste non guida opere da lassù, ma fa il tifo e “stressa” san Pietro e la Madonna per aiutarci. Quando don Oreste morì eravamo in 17 paesi nel mondo, oggi siamo in più di 45! Ha costruito una comunità dal basso, e anche se sembrava one man show non era così. Se lo fosse stato – ed è il rischio di tante comunità che poi si sciolgono quando muore il fondatore – noi non ci saremmo ingranditi così: lui ha seminato e noi raccogliamo. Ecco, don Oreste era uno che seminava. Sembrava che girasse tutto attorno a lui, ma lui usava la sua notorietà per il bene dei poveri e tante volte si vergognava di quello che era diventato, del successo, però sapeva benissimo che serviva. Diceva spesso “i media sono le nostre antenne, le antenne dei poveri, noi senza non potremmo portare avanti le nostre battaglie di giustizia”. Quando gli si chiedeva un’intervista, e faceva circa 180 incontri pubblici l’anno – che voleva dire 3, 4 al giorno – diceva che anche se lo avesse chiamato una piccola parrocchietta in val di Fassa con cinque vecchiette, lui aveva l’obbligo di andare a parlare con loro e di non snobbarli perché era don Benzi, molti purtroppo fanno questo calcolo. “Anche se c’è un vecchietto mezzo addormentato, io ci vado se no non sto facendo la mia missione”, diceva. Era convinto che non gli spettasse valutare numeri e notorietà. Con i media aveva un rapporto privilegiatissimo, “non se la tirava”, quale che fosse il giornale, dava sempre l’attenzione che doveva. Se non ci fossero i media noi non urleremmo nulla. Ed è lo stesso motivo per cui anch’io ho fatto tante interviste nella mia vita, perché negarmi?». (Fonte foto: Imagoeconomica)
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