Il seguente racconto è tratto dal libro E continuavano a chiamarlo don Camillo (Ed. Cantagalli), prima raccolta di brevi storie di fan fiction che riportano in vita i celebri personaggi guareschiani. In maggio è uscita la seconda raccolta con altri 35 racconti, Don Camillo e la bocciata finale (Ed. Il Timone). Mi mancavano don Camillo e Peppone, così li ho infilati dentro a queste storie per fargli raccontare le stramberie del mondo d’oggi, perché di nuovi trinariciuti ne abbiamo molte varietà (tipo la battaglia contro le croci di vetta “divisise”, una vera e propria battaglia del Cai...).
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Dalle finestre del tinello don Camillo aveva un meraviglioso panorama sulle cime, ma quella mattina all’orizzonte mancava qualcosa. Non aveva ancora finito di raccapezzarsi sulla faccenda paesaggistica che arrivò come un fulmine lo Sparalesto, in compagnia del presidente della Pro Loco.
In nome dell’ambiente, il gruppo “Spirito libero in libera natura” aveva ottenuto dal comune il permesso di abbattere la Croce di vetta che era lì da duecento anni.
Don Camillo fece irruzione nell’ufficio della nota assessora alla cultura e, mani sui fianchi, la guardò come si guarda un abusivo che scaccia di casa il padrone. Ma l’assessora era un osso duro.
«Si calmi e non ne faccia una questione integralista», disse, «noi pensiamo che i frequentatori della nostra vetta più alta debbano avere la possibilità di attribuire liberamente alle loro esperienze in montagna i valori che sentono più affini. Senza alcun inquinamento prevaricatore. Lo diciamo anche per una questione di libera lode alla natura, senza preconfezionamenti».
Il povero parroco, di fronte a un tale sfoggio di cultura, rimase per un momento al tappeto. E pensò che l’assessora colpiva molto più duro del vecchio Peppone.
Uscito dal palazzo comunale don Camillo ebbe un’altra notizia da knock-out, i talebani dell’ambiente libero non si erano limitati a togliere la vecchia Croce di vetta, ma al suo posto avevano posizionato un monumento al libero pensatore che, pensoso, avrebbe atteso lo scalatore per dargli un vago senso di conquista della cima. Il vaso era colmo e al nostro parroco di crinale non rimase che andare dal Crocifisso dell’altar maggiore.
«Signore, qui la vogliono sfrattare da casa sua».
«Non preoccuparti don Camillo, ci sono abituato, sono salito sulla Croce per questo. Tu continua a salire la tua strada e non perdere di vista la meta».
E fu sera, e fu mattina. Il giorno dopo verso mezzogiorno in piazza non si parlava d’altro, tutti a guardare la vetta. Nottetempo qualcuno, di fianco al libero pensatore, aveva piantato tre metri di Croce con su scritto In hoc signo vinces. Qualcuno gridava al miracolo. Quelli dello “spirito libero” erano già pronti a salire in vetta con l’assessora che voleva vedere con i suoi occhi. Don Camillo si rese subito disponibile per accompagnarli.
Durante la salita raggiunsero il vecchio Paolino, che ogni anno in quaresima saliva alla Croce di vetta per lasciare un fiore. Era solo da anni, aveva perso in un colpo la moglie e il giovane figliolo, assassinati all’epoca della linea gotica.
«Buongiorno reverendo, venite anche voi alla Croce?», domandò Paolino.
«Andiamo a vedere chi ha rimesso la Croce in vetta, visto che questi signori l’avevano tolta per far posto ai pensatori».
«Ma la Croce è sempre rimasta al suo posto», rispose Paolino, «da casa mia non ho mai smesso di vederla».
Tutti conoscevano il vecchio Paolino e a qualcuno la storia del miracolo cominciava a far sudare freddo. A togliere tutti dall’impaccio pensò don Camillo: «Cari liberi pensatori, spesso solo un cammino molto accidentato può condurre a Dio, un cammino che solo nella Croce trova significato. Allora si sale per la strada giusta. Chi nel proprio cammino non vede più la Croce, allora è segno che è fuori strada. Ma si può sempre tornare sulla retta via e vedere così riapparire all’orizzonte il Segno della vera libertà». La comitiva girò i tacchi e scese a valle. Dal tinello di don Camillo il panorama era tornato a posto. (Disegno di di Tommaso Arzeno ©)
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