Papa Francesco ha firmato martedì il decreto per proclamare venerabile il servo di Dio don Alfonso Ugolini. La sua è una storia affascinante di devozione e di carità nel nascondimento di una vita trascorsa in un’unica chiesa, quella di San Giorgio di Sassuolo. Una vita ordinaria, ma così infiammata di carità, da risultare persino avventurosa. Soprattutto a giudicare dalla reazione che la Chiesa sassolese ha avuto quando martedì la notizia della proclamazione a venerabile di don Ugolini si è sparsa per la città modenese, ma in Diocesi di Reggio Emilia e Guastalla, dove il ricordo di “Alfonsino”, nato nel 1908 e morto nel ’99 è ancora vivo nei suoi fedeli.
Come ad esempio quello di don Sergio Pellati, prevosto di San Quirino a Correggio che di don Alfonso è stato uno dei tanti chierichetti.
«Per noi don Alfonso era già santo, il bene che ha fato lo sanno le migliaia di persone che ha aiutato – ha spiegato don Pellati al Timone – . Dalle sua mani sono passati senza fermarsi tanti soldi, che lui ha destinato a bisognosi della città».
Uomo semplice e poco istruito, la vicenda terrena di don Ugolini ha tratti simili a quelli del santo curato d’Ars, soprattutto nella semplicità di studi e per lo slancio con il quale ha dedicato la seconda sua vita a confessare.
Eh sì, perché la sua seconda vita don Alfonso la dedicò al confessionale. Divenne sacerdote infatti in età avanzata, quando molti presbiteri iniziano a tirare i remi in barca e “vedono” la pensione, a 65 anni.
Se è vero che il padrone della vigna chiama a qualsiasi orario, don Alfonso dovette aspettare fino a tanto, ma il Signore non dovette andare molto distante dal tabernacolo. Don Alfonso infatti nella parrocchia di San Giorgio ci viveva dato che come sagrestano e addetto alla carità era praticamente il motore della liturgia e della carità parrocchiale.
«Tutto passava dalle sue mani, anche le attività dell’Unitalsi – prosegue don Pellati – e quando il vescovo gli propose di diventare sacerdote per lui fu una conclusione naturale del suo percorso. Era felicissimo di questo approdo».
Aveva già da allora il carisma di ascoltare gli altri perché la gente si “confessava” da lui, manifestando confidenza sui piccoli o grandi problemi. Lui, dopo averli ascoltati li mandava “dal monsignore” per l’assoluzione. Impegnatissimo con la carità, fece assumere tantissime persone nelle ceramiche sassolesi, mettendo sempre una buona parola agli imprenditori. Caratteristiche queste tipiche del prete, tanto che quando il vescovo di Reggio Gilberto Baroni gli chiese: «Alfonso, ma tu hai mai pensato di diventare prete?”, lui rispose senza esitazione: «Eccellenza, è il mio sogno, ma non ne sono degno». Il vescovo gli disse: «Allora fai così. Ti vai a confessare per 40 anni di omissioni e poi vieni a parlare da me». Tre anni dopo, nonostante il parere contrario di alcuni, Baroni lo ordinò sacerdote.
Divenuto prete nei Servi della Chiesa, congregazione nata dal carisma di don Dino Torreggiani e chiamata all’esercizio della carità, don Alfonso “prese dimora” dentro il confessionale e trovo la centralità della sua giornata nella Messa quotidiana. Ancora adesso in san Giorgio diversi fedeli prima baciano il suo confessionale, poi vanno ad accomodarsi.
È stato un uomo di una fede straordinaria – prosegue don Pellati –, visitava i malati in Montagna e confessava in continuazione».
E sapeva provocare per bene la Provvidenza, tanto da fargli fare anche certe “pazzie”. Desiderava costruire una chiesa in un piccolo quartiere verso la collina, nella zona di San Polo, da dedicare alla Madonna, ma non aveva soldi. «Qualcuno, per scherzare, gli consigliò di giocare al Totocalcio. Giocò la sua prima e unica schedina, senza sapere nulla di calcio, e fece 12. Con i soldi vinti al gioco riuscì a costruire la chiesetta e a stabilirvi così un culto permanente».
Cose così. In fondo, cose di santi.
Dopo la sepoltura nel cimitero vecchio di Sassuolo, don “Alfonsino” è stato traslato nella chiesetta delle Carandine di fianco alla sua San Giorgio e lì riceve ancora spiritualmente i suoi fedeli.
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