Neppure il tempo, per la cultura dominante e per i suoi obbedienti media, di festeggiare i 50 anni del divorzio in Italia – ricorrenza salutata come «un traguardo di civiltà» -, che già giungono nuovi dati che attestano quanto negativa e nociva sia, per i figli, l’instabilità coniugale. Il riferimento è qui ad un nuovo maxi studio reso noto l’8 dicembre che ha considerato, ed esaminato con attenzione, la condizione economica e civile di 101.180 giovani di Singapore nati tra il 1979 e il 1981.
Questa vasta ricerca – senza dubbio la prima singaporiana di questo tipo – ha portato ad osservare come, raggiunta l’età di 35 anni, figli i cui genitori avevano divorziato versavano in condizioni nettamente svantaggiata rispetto agli altri. Nello specifico, ciò che si è visto è che «i figli del divorzio» hanno meno probabilità, rispetto agli altri, di aver conseguito un titolo universitario: solo il 27,8% di costoro infatti ne risulta in possesso, rispetto al 37% dei loro dei figli provenienti da famiglie intatte.
Chi ha alle spalle una famiglia divisa risulta anche guadagnare meno, rispetto ai coetanei: precisamente l’11% in meno. Non è finita. Entro i 35 anni di età, quasi il 22% dei «i figli del divorzio» aveva a sua volta sperimentato un naufragio coniugale, rispetto al 13,8% dei coetanei provenienti da famiglie intatte. E potremmo continuare, se non ce ne fosse già abbastanza, alla luce di simili dati, per ritenere il divorzio una vera e propria sciagura per i figli, i quali – questa è la vera notizia emergente da questo maxi studio – pagano a lungo, e su più versanti, le conseguenze delle divisioni genitoriali.
Ora, si potrebbe pensare che questa ricerca, per quanto vasta, sia isolata per le risultanze che presenta. Sfortunatamente non è così, dato che la letteratura sulle conseguenze negative del divorzio sui figli è davvero vasta e pr. Basti pensare a quanto pubblicato sul bimestrale Child: Care, Health and Development nel 2012, quando uscì una ricerca che metteva in luce come il divorzio comporta, per i figli di genitori decisi a lasciarsi, una percentuale di abusi pari al 10,7%, rispetto ad un tasso di abuso infantile medio del 3,4%.
Questo significa che il divorzio, a suo tempo introdotto e salutato quale istituto moderno e filantropico, oltre che determinare per i figli maggiori tentazioni suicidarie – come documentava una ricerca uscita nel 2011 su Psychiatry Research – triplica per questi la possibilità di rimanere vittime di violenze. Tutto ciò può essere anche letto naturalmente, al contrario, come un effetto protettivo del matrimonio. In effetti, negli Usa si è osservato come i bambini i provenienti da famiglie sposate, rispetto ai coetanei figli di coppie non intatte, abbiano il 70 per di probabilità in più di laurearsi; mentre le ragazze provenienti da famiglie sposate abbiano la metà delle probabilità di rimanere precocemente incinte e i ragazzi abbiano la metà delle probabilità di finire in prigione.
Insomma, se da un lato il matrimonio protegge alla grande i figli, dall’altro il divorzio li espone a tutta una serie di difficoltà rispetto alle quali, in realtà, gli esiti del nuovo estesissimo studio sui giovani di Singapore nati a cavallo tra gli anni Settanta ed Ottanta non sono che una autorevole ed ultima conferma. Di qui un dubbio: come mai l’istituto divorzile, nonostante decenni di doloroso «collaudo», viene ancora salutato come una conquista e non come la tragedia che a tutti gli effetti rappresenta? Viene davvero spontaneo chiederselo, mentre i devastanti effetti di questo presunto «traguardo di civiltà» restano dove sono sempre stati: nel sofferto silenzio, per riprendere il titolo di un noto film, degli innocenti.
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