di Rino Cammilleri
La secolarizzazione, com’è noto, consiste nell’avere espunto la religione dell’Occidente dagli ambiti pubblico e sociale, così che rimanga confinata solo in quello privato. La religione dell’Occidente è il cristianesimo, che in Italia è cattolicesimo romano. La secolarizzazione ha avuto un impulso decisivo dal Sessantotto e, complici i media, è stata introiettata anche dai credenti, i quali si sono ormai abituati a pensare la religione come un fatto personale, ed è per questo che, per esempio, il divorzio e l’aborto hanno conquistato la maggioranza dei cittadini in base a un ragionamento del tipo: io, che credo nel Dio cattolico, non divorzio né abortisco, ma non ho il diritto di impedire a uno che nel Dio cattolico non crede di agire secondo la sua coscienza.
Tutte le tappe della dissoluzione morale hanno doppiato questo snodo e così sarà anche dell’eutanasia. La quale verrà introdotta grazie alla solita argomentazione: io, che credo, non lo faccio; perché obbligare chi non crede a imitarmi? Naturalmente, anche Pacs, nozze gay e quant’altro (inseminazione eterologa, uteri in affitto, clonazione, esperimenti su embrioni, adozioni omosex, pedofilia tra “consenzienti” etc.) passeranno (dove non siano già passate) attraverso lo stesso perverso modo di ragionare. Che, come tutti i sofismi, è all’apparenza seducente e convincente. Uno slogan penetra prima e meglio, laddove l’argomentazione contraria richiede tempo, molte più parole e capacità di recezione logica. La realtà, infatti, è complessa e non si presta ad approcci semplicistici. Ma la democrazia di massa è, ahimé, molto più permeabile alla demagogia che alle discussioni complicate. Nella civiltà dell’immagine si comprende con lo stomaco, non col cervello; vale a dire che l’emotività la fa da padrona. E basta, per esempio, la straziante lettera di un tetraplegico caduto in depressione per orientare le masse verso l’accettazione dell’eutanasia. Così, si diventa propensi a sorvolare sul fatto che la morte non è mai una soluzione e che il vero problema è la depressione, non l’infermità invalidante.
Il punto, comunque, è un altro. Ormai, cadute le ideologie, quel che è rimasto è la contrapposizione nuda e cruda tra credenti e atei (forse, chissà, anche il revival islamico è da leggere in questa luce). Chi crede in Dio e nell’aldilà prospettato dalla dottrina cristiana sacrifica le sue voglie e i suoi desideri in questa vita per guadagnare l’eternità, cioè il Paradiso. Così, obbedisce a tutti i dettami della religione e, in vista del premio finale, tale obbedienza gli pesa meno. Ma chi non crede o crede poco (tra credere poco e non credere affatto la differenza è infinitesima) finisce per aderire, per conformismo, all’unico orizzonte culturale che gli viene proposto, e che attualmente è l’edonismo spicciolo. Se Dio non esiste, se nell’aldilà non c’è nulla, se la vita è tutta qui, su questa terra, e la morte conclude tutto, allora diventa di importanza capitale e disperata che la mia vita sia come la voglio. E se una malattia, un rovescio, un’altra persona ne mortificano la «qualità», è essenziale fare di tutto per eliminare l’ostacolo. Laddove l’impedimento fosse ineliminabile, ecco la richiesta di farla finita. Solo in Italia si suicidano circa quattromila persone all’anno, di cui una su quattro è una donna. Il suicidio è la prima causa di morte tra i giovani, una fascia di età che, in passato, era la più refrattaria a farla finita.
Ciò è comprensibile, dal momento che la gioventù è una delle condizioni perché la vita si possa godere al massimo: vedere la gioventù passare senza poter «cogliere l’attimo» per colpa di una sorte avversa è quanto mai frustrante. Da qui al suicidio «per futili motivi» (una delusione amorosa, un brutto voto a scuola, un rimprovero in famiglia, il divieto di far tardi la notte) il passo può essere a volte breve.
Cosa c’entra l’ateismo? È presto detto. Non si può negare che anche su un momento di nerissima disperazione può fare aggio una paura più grande, quella dell’Inferno. Questo tipo di (realmente salutare) paura era indotto, in tempi non secolarizzati, anche dal rifiuto dei funerali religiosi e la conseguente sepoltura in terra sconsacrata. L’ordinamento recepiva la dottrina cristiana sul suicidio nel codice penale, considerando il suicidio un reato. La norma ancora esiste, certo, ma è, come dicono i giuristi, «imperfetta» perché la sanzione non viene più applicata: prevale la pietà sul mancato suicida. Né la Chiesa più rifiuta funerali religiosi e cristiana sepoltura a chicchessia. Per forza: un peccato è tale se se ne ha la «piena avvertenza», cosa che oggi, in tempi di secolarizzazione avanzata, si può senz’altro escludere nei più. Insomma, ormai i credenti devono confrontarsi con i non credenti, cioè gli atei (anche se questo termine sembra suonare duro). Chi crede nel Paradiso e nell’Inferno non ha bisogno di referendum. Invece, agli altri non bastano mai, e sempre più reclameranno fette di «libertà» edonistica, fino a ottenere che chiunque possa soddisfare i capricci più minuti come e quando voglia, incuranti di un «bene comune» futuro i cui nodi al pettine saranno, semmai, a carico di chi verrà dopo. Infatti, nella prospettiva dell’ateo il futuro non esiste: esiste solo il qui e adesso.
A questo punto, quel che serve è, proprio, una nuova evangelizzazione, perché è con l’ateismo che noi cattolici dobbiamo confrontarci. Si badi: un paragone con i tempi della prima evangelizzazione è improponibile perché i primi cristiani avevano di fronte dei pagani, non degli atei. Gli atei non percepiscono il cattolicesimo come una diversa religione, bensì come un mero e incomprensibile elenco di divieti, tanto arrogante quanto più pretende di imporsi anche a loro. Dei tanti slogan del Sessantotto, morte le ideologie, sono rimasti solo questi due: Paradise now! e «vietato vietare». I più insidiosi, perché un’ideologia, in fondo, vuole obbligare tutti, mentre l’anarchia edonistica vuole solo essere lasciata in pace. Dunque, si attrezzi il cattolico a far fronte all’ateismo, senza badare ai vari nomi dietro ai quali si dissimula.
IL TIMONE – Novembre 2006 (pag. 20-21)