di Stefano Chiappalone
sul sito di «Alleanza Cattolica»
Correva l’anno 2001 e ricordo ancora con stupore le pagine di un vecchio messalino con le parole: «introibo ad altare Dei. Ad Deum qui laetificat iuventutem meam», «salirò all’altare di Dio. A Dio che allieta la mia giovinezza». Effettivamente la mia verde età di allora fu allietata non poco quando, di lì a pochi mesi, quelle parole presero corpo nella cappella di amici sacerdoti che officiavano anche con l’antico messale grazie all’indulto concesso da Papa san Giovanni Paolo II (1978-2005). Il sacerdote stesso spariva, volto anch’egli in direzione dell’Oriente, rivolto al Signore come ciascuno dei fedeli; una moltitudine di gesti, inchini e genuflessioni, segni di croce e baci all’altare. Troppi, secondo certo razionalismo moderno che ignora la logica dell’amore: ma quale madre non moltiplicherebbe le carezze verso il bambino? E quale amato elargisce con parsimonia baci all’amata? La liturgia dei gesti s’intrecciava poi con quella del silenzio, in un crescendo di quella che, in termini profani, potremmo definire suspence, in un dramma che va dalla tragedia del Golgota alla poesia di quel Prologo del Vangelo di Giovanni che concludeva la celebrazione, quasi distillando il mistero appena vissuto: «Et Verbum caro factum est et habitavit in nobis et vidimus gloriam eius», «E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi e noi vedemmo la sua gloria».
Anche la bellezza della liturgia evangelizza, come dimostra il celebre episodio della conversione della Rus e, in tempi più recenti, il numero ‒ forse non maggioritario, ma neanche trascurabile ‒ di quanti, a distanza di dieci anni, tornano con animo grato a quel 7 luglio 2007 in cui l’allora Pontefice Benedetto XVI (2005-2013), con il motu proprio Summorum Pontificum , riconosceva piena cittadinanza nella Chiesa alla liturgia precedente le riforme avvenute a cavallo del 1970, che pertanto sussiste quale «forma straordinaria» accanto a queste ultime. A generare tale domanda non fu semplice nostalgia, poiché «[…] anche giovani persone scoprono questa forma liturgica, si sentono attirate da essa e vi trovano una forma particolarmente appropriata per loro di incontro con il Mistero della Santissima Eucaristia» (Lettera ai vescovi in occasione della pubblicazione del motu proprio del 7 luglio 2007 ).
Tra i critici di quel documento pontificio non mancò chi ridusse il fenomeno a puro estetismo, come se fosse questione di mere decorazioni dell’altare o di ghirigori dei paramenti. Se non fosse riduttiva, tale critica avrebbe persino un fondo di verità: ad attrarmi alla liturgia antica fu certamente anche un’esperienza estetica, ma si trattava di una bellezza così grande ed eterna che non sarebbero bastati a esprimerla tutto l’oro e l’incenso del mondo. In quel vecchio messalino, che sfogliavo con lo stupore di avere tra le mani qualcosa a metà tra un samiszadt e un frammento di un pianeta da scoprire, intravedevo la bellezza che è al cuore di ogni liturgia. Attraverso la “Messa straordinaria” scoprii che ogni Messa, in qualunque rito, è straordinaria. E confesso che provai nostalgia, non tanto del passato, quanto delle cose che sono di là da venire, «quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì» (1 Cor 2,9).