Pochi sacerdoti, al giorno d’oggi, sanno predicare bene. Spesso, infatti, le omelie domenicali che sentiamo nelle chiese sforano abbondantemente i dieci minuti che dovrebbero costituire il limite massimo da non superare; inoltre, afferma Guido Rodheudt sul Tagespost, i sermoni rischiano di «diventare una tortura per l’ascoltatore se il predicatore non solo rinuncia a un concetto scritto ma anche intellettuale».
Predicare è un’arte e va dunque studiata, così come vanno approfonditi i concetti da trasmettere a chi ascolta: bisogna saper affascinare con le parole, saper mantenere l’uditorio concentrato, ma nel contempo trasmettere un messaggio chiaro, che possa rimanere impresso in maniera duratura e portare frutto nel tempo. Don Camillo lo aveva ben chiaro: prediche brevi, ma utili per far riflettere sulla vita eterna.
LITURGIA ANCELLA DELLA PAROLA
Naturalmente, nel mondo odierno, dove tutto è veloce e la soglia d’attenzione è sempre minore, tutto questo è ancora più difficile, ma la soluzione vincente non va ricercata, come fanno alcuni, in uno “spettacolarismo” fine a se stesso, privo di contenuti edificanti. «Solo una cosa», leggiamo ancora sulle colonne del Tagespost, «aiuta: parlare con vivacità di cose concrete, una buona voce di predicazione che coinvolga e attivi il pubblico e – a seconda delle capacità retoriche – la brevità. Il visitatore della Messa della domenica di oggi non viene alla Messa, come prima dell’era dei media, con l’intenzione di trovare la sua isola settimanale di cultura, musica ed educazione, oltre che per assolvere i suoi doveri religiosi. La scuola domenicale come elemento incorporato della liturgia ha fatto il suo tempo per le capacità percettive dei consumatori di oggi. Tutti vogliono portare via qualcosa per la settimana, ma deve essere breve».
Con questo non si vuole assolutamente dire che la predica, oggigiorno, potrebbe anche non esserci, anzi: l’analfabetismo religioso è talmente elevato che sarebbe necessario ripartire dall’Abc, quel che va rivisto sono le modalità con cui la si fa. Sulla scorta di quanto affermato dal Concilio Vaticano II, «l’omelia fa parte della liturgia e dovrebbe quindi essere ispirata principalmente dalla liturgia del giorno, soprattutto dalle letture, in termini di contenuto». Il problema è «nel tempo il rapporto è stato capovolto e la liturgia è diventata parte della predica»: tutta la celebrazione diventa un evento commentato “minuto per minuto”, con inserti vari ed eventuali proposti dal celebrante, e lo spazio per il silenzio, la preghiera e il “Sursum corda” vengono ridotti pressoché a degli intercalari in mezzo al tutto.
DAL CORONAVIRUS, UN’OCCASIONE
Di fronte a tutto questo, almeno su questo il Coronavirus potrebbe fungere da occasione per delle modifiche positive. Senza infatti dover necessariamente arrivare a un gesto come quello di John Wester, arcivescovo di Santa Fe, capitale del New Mexico (USA), che questa estate ha imposto ai suoi sacerdoti prediche di massimo 5 minuti per ridurre il tempo trascorso in chiesa dai fedeli, è possibile che la pandemia in atto porti a una sorta di «igiene omiletica». E che, attraverso questa, «si ricordi ai predicatori che la liturgia non vive della parola umana» e che è buona cosa lasciare più spazio alla contemplazione di quel Dio che si fa carne e muore in croce per noi, amandoci di un amore che va oltre ogni tentativo di spiegazione umana.
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