Da un’idea di don Samuele Pinna ha preso vita “Dietro le quinte”, una rubrica senza periodicità che vuole incontrare quei personaggi importanti che lavorano per il bene e non sempre appaiono in prima fila, ma appunto sono spesso “dietro le quinte”
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Viviamo in un mondo sempre più materialista, non solo a motivo del consumismo, ma anche per l’individualismo sfrenato che rende difficili i rapporti tra le persone. Mi sono incontrato con monsignor Francesco Cavina – autorevole firma de Il Timone, ogni mese sulla rivista con una rubrica seguitissima –, un Pastore dallo sguardo lucido e sereno: il vescovo, infatti, ha il compito di insegnare la fede, di governare il popolo di Dio e di aiutarlo nella sua santificazione (i cosiddetti tria munera). Desidero discorrere con lui della dimensione spirituale: «È fuori da ogni dubbio che la spiritualità sia importante e poiché oggi sta perdendo smalto è quanto mai necessario recuperarla. Si tratta di ritrovare una spiritualità sana e accessibile a tutti, ma non appiattita sull’effimero e in cerca di facili soluzioni all’anelito di assoluto che comunque permane nel cuore umano. C’è un bellissimo racconto che mi sembra la rielaborazione, in chiave di fede, del celebre apologo di Nietzsche, in Così parlò Zarathustra. Un funambolo viveva facendo acrobazie, senza alcuna rete di protezione su una fune che tendeva ad altezza vertiginosa: una volta portò sulla corda una bicicletta, dichiarando di voler andare avanti e indietro in sella. Chiese al pubblico se poteva farcela e il sì di risposta fu unanime. A quel punto, invitò una persona a salire sul biciclo con lui. Nessuno si offerse se non un ragazzo. Il numero riuscì tra gli applausi e uno spettatore domandò al ragazzino se avesse avuto paura lassù: “Neanche un po’! Quell’uomo è mio padre!”». Voglio sapere dal Presule la morale della storia: «La spiritualità vera è, a mio avviso, come l’audacia del bambino che prontamente sale sulla bicicletta del funambolo, e proprio perché questi è suo padre, egli si fida ciecamente di lui. Anche il nostro Padre celeste è capace di cose grandiose per noi. Egli ci invita a seguire il suo Figlio che ci svela l’amore di Dio, e come dice san Paolo nulla e nessuno ci potrà mai strappare dalle sue mani (cfr. Rm 8, 39). Possiamo dunque affermare che la fiducia è la virtù specifica della spiritualità cristiana. Essa ha come presupposti, da un lato, la coscienza della propria incompiutezza e, dall’altra, la fede nell’amore che Dio ci ha manifestato in Cristo. Per questo possiamo affidarci confidenti e sicuri alle braccia di Colui dal quale ci sentiamo amati».
Mi faccio meditabondo, perché c’è il rischio – anche in casa cattolica – di vivere uno spiritualismo, frutto di emozioni (sentire qualcosa) e buoni sentimenti (l’importante è volersi genericamente bene), incapace di incidere sulle scelte della vita. Interrogo su quali debbano essere le caratteristiche della vita spirituale: «Quella cristiana è autentica quando fonda le sue radici in Cristo che, con la luce della Sua divina parola, illumina ogni aspetto dell’esistenza umana, che con il suo amore ci avvolge, coinvolge e travolge nella salvezza e che intercede continuamente per noi presso il Padre. La spiritualità nasce, cresce e si sviluppa nel grembo della Chiesa madre, in costante rapporto con la sana Tradizione cattolica fondata sugli Apostoli, sui Padri della Chiesa, sui Santi, guidata dal Magistero autentico dei papi e dei vescovi in comunione con loro (meglio se santi) e nella fede semplice e popolare della gente umile. In definitiva la vita spirituale affonda le radici nella dottrina cattolica. Scrive il beato Columba Marmion, nella sua opera Cristo vita dell’anima, che “solamente restando nel cuore del dogma, potremo attingervi vita, gioia e fecondità per le anime nostre”. La spiritualità è autentica, dunque, quando è agganciata alla fede oggettiva. Solo così la vita interiore sarà salvaguardata dallo spiritualismo spicciolo ed emotivo, dall’opinione, dalla moda dominante».
Incalzo: quanto è importante in questo quadro appena delineato la Liturgia? «Il documento conciliare Sacrosantum Concilium afferma che la liturgia “è il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, insieme, la fonte da cui promana tutto il suo vigore” (n. 10). Queste poche parole racchiudono tutto il mistero della preghiera pubblica della Chiesa, la quale altro non è che la nostra partecipazione alla Liturgia del Cielo, il cui celebrante è l’Agnello ritto e immolato, ossia il Signore nostro Gesù crocifisso e risorto. Da qui, la sacralità e l’importanza della sua corretta celebrazione. Illuminante, al riguardo, è un celebre passo dell’Esodo dove Mosè, in fuga dal faraone, inoltratosi nel deserto vede ardere un roveto senza che questo si consumi. Avvicinatosi per vedere meglio gli viene intimato da Dio di fermarsi e togliersi i sandali perché il luogo che i suoi piedi calpestano è santo. Ebbene, la liturgia cristiana è questo luogo santo dove Dio si rende presente e ci dà appuntamento per rivelarci il Suo mistero d’amore. La sua corretta esecuzione altro non è che il nostro scalzarci per prostrarci in adorazione davanti a Lui. Alla luce di questa immagine si comprende per quale ragione alla liturgia mal si addicono improvvisazioni ridondanti, creatività inutili e fuorvianti, prolissità e bizzarrie. I misteri divini richiedono a colui che presiede l’ars celebrandi, che s’impara solo nell’obbedienza alla Chiesa e alle Norme Liturgiche del Messale Romano, che mediante le rubriche ne specificano la sua attuazione».
Il riferimento normativo conduce il discorso al tema dell’obbedienza: per praticarla c’è bisogno di un riferimento chiaro, di una verità, troppo spesso confusa col pensiero dominante: «Parlare oggi di verità viene percepito, anche da molti cristiani, come una “pretesa” intollerabile perché, si afferma, non esistono più valori permanenti. L’uomo moderno – che ha divinizzato se stesso e la sua opera – non tollera che possa esistere una verità che ci è donata. La sola cosa importante è dire quello che si è e non quello che è. La Verità, così, si smarrisce nella chiacchiera e nella dispersione e viene di conseguenza sostituita da tante verità personali che devono essere accettate come tali, pur contraddittorie. La verità, dunque, viene sostituita dalla confusione e dalla falsità, frutto dell’azione demoniaca. È inaccettabile, che noi cristiani, ci vergogniamo delle parole con cui Cristo ha presentato se stesso: “Io sono la via, la verità e la vita” (Gv 14, 6). Nessun uomo ha mai parlato in tal modo! Queste parole possono essere comprese solo se messe in relazione con il mistero dell’Incarnazione del Verbo – evento unico nella storia – che ci porta a riconoscere che l’uomo Gesù di Nazareth è il Figlio di Dio venuto per svelarci chi siamo noi e chi è Dio. Dal giorno di quell’evento diventa possibile dire con un detto dei Padri del deserto: “Colui che persevera nella memoria di Gesù, costui è nella verità”. C’è chi ritiene che per salvare il mondo bisogna in qualche modo farsi del mondo, ma questa mentalità contraddice la parola di Gesù il quale ci chiede di “amare la verità” che sola ci “farà liberi” (Gv 8, 32). Solo amando la Verità, che è Cristo stesso, i cristiani non saranno “come penna ad ogni vento” (Dante, Par., V). Ben sapendo che “tutti quelli coloro che vogliono rettamente vivere in Cristo saranno perseguitati” (2 Tim 3,12). Ma come diceva san Filippo Neri: “Preferisco il Paradiso!”. Non è l’elogio di una fede ridotta a intimismo o a un’esperienza privata, ma un invito alla responsabilità verso il fratello perché non potremmo salvare la nostra anima che cercando di salvare quella degli altri».
Nella Chiesa è la teologia ad avere il compito di approfondire le verità rivelate, e invece sembra che i teologi vogliano annoiare i battezzati con testi banali se non addirittura distruggere il sacro deposito con tesi bislacche: «La teologia è ricerca, approfondimento, comprensione e amore per la verità rivelata. Quale può essere il criterio per capire quale è buona teologia da quella imperfetta? Un criterio molto chiaro ci viene offerto dal già citato beato Columba Marmion, il quale afferma che la teologia poiché è “sviluppo della fede non si può fare in via ordinaria che nella preghiera”. Il vero teologo non è colui che si sofferma a scrutare la verità per il solo gusto di sapere o di acquisire nuove nozioni, ma è colui che trasforma il suo studio in preghiera, in lode riconoscente e motivato dall’amore per i fratelli. L’autorità di un teologo, dunque, non è data solo dal titolo accademico, ma nasce dalla sua cordiale appartenenza alla Chiesa e dall’ascolto dello Spirito Santo che opera in lui, lo fa entrare nelle profondità di Dio e gli fa scoprire la bellezza dell’amicizia di Cristo che cambia la vita. In quest’ottica, il suo studio diviene un modo concreto di vivere la carità perché mette al servizio della fede dei fratelli le sue riflessioni, li aiuta a progredire e irrobustire la loro vita interiore e propone Cristo come ideale di umanità. In breve potremmo dire che il teologo parla di Dio perché lo ama e vive in comunione con Lui».
Questa visione è rifiutata da chi esalta la libertà (intesa come libertinismo): «Oggi stiamo assistendo a uno strano fenomeno: da una parte c’è l’esaltazione di una libertà senza freni e dall’altra parte l’esercizio di un’autorità senza legge. Queste “assurdità” portano a riconoscere che non è possibile la libertà e l’esercizio dell’autorità quando manca la possibilità di un appello a un’Istanza Superiore, davanti alla quale libertà e autorità sono responsabili e dalla quale un giorno saranno giudicate. È stato scritto che la dimensione religiosa è costitutiva di un umanesimo completo (Danielou), perché l’uomo è stato creato idoneo a conoscere e amare Dio. Pertanto, la dimenticanza di Dio dal pensiero dell’individuo come dalla vita di una società determina sempre un vuoto, è un ostacolo al vero sviluppo, rivela un’indigenza che porta alla perversione dell’intelligenza. Si comprende per quale ragione le tante parole che oggi si spendono in favore della libertà corrono il rischio di non essere altro che un velo gettato sull’angoscia e sulla disperazione che caratterizza lo stato d’animo dell’umanità».
Dove si trova, quindi, la vera libertà? «Risiede nell’accogliere il gesto di Dio che viene verso l’uomo bisognoso della Grazia divina, poiché corrotto dal peccato di Adamo e incapace di salvarsi con le sue sole forze. Il Figlio di Dio, assumendo una carne umana come la nostra, ci ha svelato la paternità di Dio. Egli non è solo l’Onnipotente, ma è anche Padre. Se Dio è Padre non siamo autori di noi stessi, ma siamo figli, dal Quale siamo guardati con benevolenza e compiacimento e invitati a unirci a Lui. In quanto figli, il Padre ci affida la creazione e ci chiede di amarla perché è uscita buona dalle sue mani, ci sprona a realizzare le nostre più profonde aspirazioni e tendere alla pienezza del bene che è l’amore. Ma come posso amare se non so che cosa significa amare? Mettendomi alla sequela di Cristo. Il riconoscimento della Sua presenza implica la rinuncia alla propria sufficienza per entrare nella via dell’amore, l’unica via che realizza l’uomo al di là di ogni suo desiderio. È, dunque, nel dono di se stessi all’Altro – anche se ciò comporta sacrifici – che io vivo la mia libertà. Tutti sappiamo per esperienza che ogni amore implica una parte di sacrificio perché richiede che i miei gusti e i miei interessi siano subordinati a quelli della persona amata. E chiunque ama sa che tutto ciò non distrugge affatto la propria personalità, ma al contrario la realizza pienamente. Proprio come ha scritto Kierkegaard: “Ogni potenza finita rende dipendenti; soltanto l’Onnipotente può rendere veramente liberi” (Diario, VII A 81). Quando si vive in questo clima di libertà, si capisce chiaramente che vivere nel peccato non porta alla liberazione, ma alla schiavitù».
Rimango ammirato dal mio interlocutore, tanto da voler sapere quanto incida ancora il pensiero cattolico nel nostro tempo: «La predicazione della Chiesa, fin dalle sue origini, è sempre stata caratterizzata dall’annuncio di Cristo unico Salvatore. Con le conseguenze che tale annuncio comporta: solo nel Nome di Gesù si trova la salvezza. Egli è il Salvatore di tutti. Privo di Cristo l’uomo rimane schiavo del peccato e conseguentemente vive in uno stato di decadimento morale, a causa del quale gli risulta difficile compiere il bene. Il luogo dove ci è dato di partecipare dei frutti della Redenzione operata da Cristo è la Chiesa, la quale è la sede e il fondamento della verità e, pertanto, chi è fuori dalla Chiesa è in errore. Ebbene, queste certezze ormai non esistono più. La crisi che stiamo vivendo è – per usare le parole del cardinal Giacomo Biffi –, ben più grave di quella ariana, di quella protestante! È più grave perché “oggi non c’è più il cristianesimo”. Gesù Cristo sembra divenuto superfluo per la maggior parte dei cristiani. Per non lasciarsi portare qua e là da qualsiasi vento di dottrina (cfr. Ef 4, 14) è quanto mai attuale il consiglio di san Gregorio Magno: revertimini ad fontes, ritorniamo alle fonti. Vale a dire, torniamo a mettere Cristo al centro della realtà e della vita, anche se, diceva il cardinal Biffi, sono pochi a prendere sul serio questa strada, la strada del cristocentrismo».
Benedetto XVI nella sua lettera Deus caritas est ha, difatti, scritto: «All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva» (n. 1): «Sì, la Chiesa è tanto più autentica quanto più parla di Cristo e quando Cristo è veramente al centro della sua vita. San Paolo VI ha saputo esprimere la singolarità, l’assolutezza e la necessità di Cristo per la nostra vita e la vita dell’umanità in una meravigliosa preghiera: “O Cristo, nostro unico Mediatore, tu ci sei necessario per venire in comunione con Dio Padre. Tu ci sei necessario, per conoscere il nostro essere e il nostro destino. Tu ci sei necessario per scoprire la nostra miseria morale e per guarirla… Tu ci sei necessario, per percorrere nella gioia e nella forza della tua carità la nostra via faticosa, fino all’incontro con te amato, con te atteso, con te benedetto nei secoli”».
Aspetto l’Amen prima di congedarmi da monsignor Francesco Cavina, il quale mi pare aggiungere a mo’ di saluto: «Le parole del santo Papa ci dicono la sua passione di Cristo e qual è la missione della Chiesa: annunciare la vita vera che si trova solo nella comunione d’amore con il Signore Gesù, il quale è la gioia, la ricchezza, la pace e la salvezza dell’uomo».
(Immagine: Testa di Cristo , ca. 1648-1656, artista/autore: Rembrandt Harmensz. van Rijn, Collezione John G. Johnson, 1917, Philadelphia Museum of Art)
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