È trascorso un anno dalla morte del filosofo Robert Spaemann (1927–2018), che ci lasciava il 10 dicembre scorso. Un arco di tempo che non ha affatto eclissato, anzi, la grandezza del pensatore tedesco, di cui proprio in queste settimane, grazie alla traduzione del sociologo Leonardo Allodi, è giunto in Italia un testo inedito: Pregare nella nebbia – La fede ha un futuro? (Morcelliana, 2019). Il libro, strutturato sotto forma di dialogo con il sociologo Hans Joas e di piacevole lettura, fa emergere numerosi aspetti del pensatore che ebbe la cattedra che fu di Hans-Georg Gadamer e fu amico personale e collaboratore del cardinale Ratzinger.
Anzitutto, sono interessanti i passaggi in cui Spaemann ricorda la sua esperienza sotto il regime nazista, un’esperienza estremamente dura ma che non gli fece mancare la fede, anzi: fece emergere la distanza tra chi seguiva Hitler e chi rimaneva fedele a Cristo. «Il periodo nazista ha costituito per me un immenso irrobustimento della fede», ricorda il filosofo, «la vita apparteneva ad altri. Da una parte vi erano quelli, dall’altra noi – questa polarizzazione fu d’aiuto. La fede e la comunità di fede ci trasmettevano la sensazione di essere in molti ad andare contro i nazisti» (p.69).
Nel libro non mancano poi riferimenti più attuali, con particolare riferimento all’eclissi del cristianesimo a beneficio della tecnica. A questo proposito, Spaemann ricorda di quando, in Brasile, spiegò ad una suora che non doveva preoccuparsi per la nebbia che circondava la nave dal momento che essa era munita di radar; ebbene, la risposta della religiosa alla scoperta dell’esistenza del radar fu a suo modo raggelante: «Si emozionò molto e disse che doveva raccontare questo il prima possibile alla madre superiora. “Ora non dobbiamo pregare più per la nebbia”, disse con sollievo» (p.74).
Un esempio, tra i tanti, che porta il filosofo tedesco ad un certo pessimismo («la non credenza è oggi più attrattiva della fede»), controbilanciato dalla certezza che tuttavia il cristianesimo più inattuale – quello più radicale e autentico – non ha perso la sua capacità di colpire l’uomo contemporaneo: «Laddove il credo si fa più esigente, ha successo» (ibidem). A proposito di fede esigente ed attrattiva, è molto bello, nel libro, quando Spaemann riconosce a papa Benedetto XVI di essersi speso per riportare il sacro al centro non tanto e non solo del mondo, ma della stessa Chiesa.
«Gli attribuisco un merito molto alto», racconta il filosofo alludendo all’amico teologo divenuto pontefice, «e cioè l’aver rimediato ad alcune grandi ingiustizie nella questione della liturgia. Ha cercato di reintegrare nella Chiesa il potenziale spirituale, che gli uomini che frequentano volentieri la Messa antica portano con sé. Questo è un grande merito» (p.99). Il riferimento è naturalmente al motu proprio Summorum Pontificum del 2007.
Ora, molti altri passaggi meriterebbero di essere qui ricordati ma, siccome lo spazio è tiranno, non possiamo, per concludere, che consigliare la lettura integrale di Pregare nella nebbia – La fede ha un futuro? perché, pur non essendo un testo lungo, condensa parecchie, illuminanti riflessioni di uno dei più grandi filosofi degli ultimi decenni, una figura che è stata in grado di sfidare il pensiero dominante sia come accademico sia come credente, mosso sempre dalla convinzione che tutte le verità di cui, in fondo, l’uomo ha bisogno se ne stanno al sicuro là, in quei quattro libretti che compongono il Vangelo, dove risuonano – insuperate per chiarezza e profondità – le parole di Gesù Cristo.
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