«Il Vaticano sta perdendo il più grande paese cattolico del mondo: è una perdita enorme, irreversibile». Più che un commento pare un epitaffio, quello di José Eustáquio Diniz Alves, uno dei principali demografi brasiliani, a proposito dell’arretramento del cattolicesimo in Brasile, e non solo. Sì, perché Alves è solo una delle voci interpellate in un lungo servizio a firma di Francis X. Rocca, Luciana Magalhaes e Samantha Pearson, uscito in questi giorni sul Wall Street Journal, da cui emerge una realtà drammatica e ormai ineludibile: la Chiesa cattolica sta perdendo l’America Latina. I numeri, in effetti, sono chiari: se nel 1995 ancora l’80% della popolazione dell’America Latina si diceva cattolica, nel 2005 quella percentuale era scesa al 70% ed ora ormai è sotto il 60%.
Se non proprio verticale, dunque, la caduta è tuttavia netta e continua. Il fenomeno, va precisato, è comunque tipico degli ultimi decenni, dal momento che, come noto, per secoli essere latinoamericano significava, ipso facto, essere cattolico. Poi la musica è cambiata. Il cattolicesimo ha perso fedeli – e tutt’ora continua a perderne – a vantaggio essenzialmente dei protestanti pentecostali e, da qualche tempo, anche della più contenuta fetta dei «non religiosi», vale a dire i non affiliati a nessuna chiesa.
A rendere ulteriormente cupo il quadro, c’è un aspetto che non si può non considerare, e cioè che, se oggi meno di sette latinoamericani su dieci si dice cattolico, l’85% di essi comunque cresce e viene educato nella Chiesa: solo che poi la lascia. Il che pone un interrogativo centrale: come mai? Da cosa deriva questa emorragia, che appare ancora più paradossale considerando che sta continuando quando, a Roma, siede per la prima volta nella storia un pontefice latinoamericano, come Papa Francesco?
Nel provare a rispondere a tale quesito, il Wall Street Journal sostiene che la ritirata del cattolicesimo – resa evidente anche dalla legalizzazione dell’aborto e dal radicamento dell’agenda liberal in Paesi come l’Argentina o il Brasile – sia dovuto al fatto che la Chiesa si sia resa troppo autoreferenziale a scapito di un autentico radicamento popolare. A sostegno di tale tesi, viene riportato un sondaggio secondo cui sei su dieci, di quelli che hanno lasciato il cattolicesimo, lo ha fatto mettendosi alla ricerca di «una chiesa che aiuta di più i suoi membri».
Supportano tale lettura anche degli esempi concreti; per esempio, l’inchiesta del giornale americano riporta il caso di Jaime Martins, un avvocato di 45 anni di Rio de Janeiro, finito in rovina, fino a ridursi ad essere un drogato di strada, dopo la crisi economica. Una chiesa pentecostale di Rio ha finanziato il suo programma di riabilitazione dalla droga, e un’altra gli ha dato un alloggio e un lavoro come assistente nella chiesa, ha detto Martins, che ha pure aggiunto: «I preti cattolici non avrebbero nemmeno preso il caffè con gente come me».
Ora, pur col massimo rispetto per storie come queste – e senza dubitare dei sondaggi secondo cui «una chiesa che aiuta di più i suoi membri» sarebbe desiderabile -, le valutazioni sulle metamorfosi religiose di un popolo, più che agli aneddoti o a rivelazioni demoscopiche (che andrebbero sempre contestualizzate, spiegate, ecc.), sono materia per i sociologi. Come Rodney Stark, il quale ancora qualche anno fa, nel suo The Triumph of Faith (tradotto in Italia da Lindau nel 2017, col titolo Il trionfo della fede), aveva dedicato varie pagine proprio all’America Latina.
Secondo l’accademico statunitense, alla base della crisi del cattolicesimo in quell’area del mondo – e del correlato boom del protestantesimo pentecostale – non ci sono ragioni materiali, ma religiose, legate all’allontanamento di parte della Chiesa dallo spirito evangelizzatore in favore di quello politico, focalizzato cioè sul solo contrasto alla povertà. «Le chiese si riempiono quando offrono una fede che attrae», ha scritto Stark con riferimento all’esperienza dell’America Latina, «non quando cercano di comprare le persone con promesse politiche».
La prova di questa considerazione? Il vicolo cieco, o quasi, della cosiddetta teologia della liberazione, una corrente di pensiero teologico cattolico a cui fanno capo figure come il sacerdote e teologo Gustavo Gutiérrez. «La teologia della liberazione non ha portato da nessuna parte», annota senza fare sconti sempre Stark, «perché non è né un movimento rivoluzionario né un movimento religioso, ma un mix debole e auto-annullantesi, di entrambi […] la compensazione per le privazioni materiali non è la base dell’attrazione del protestantesimo». In effetti, a riprova di ciò si può evidenziare come il boom pentecostale riguardi tutte fasce sociali, non solo alcune. Checché ne scriva il Wall Street Journal – e quanti pensano di spiegare in chiave materialista quanto sta succedendo in America Latina – il problema di fondo è identico a quello del cattolicesimo europeo: la fede.
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