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Cosa vicine nella fede eppur cosa lontane. Qual è la ferita che sanguina ancora tra Roma e Mosca
NEWS 3 Dicembre 2014    

Cosa vicine nella fede eppur cosa lontane. Qual è la ferita che sanguina ancora tra Roma e Mosca

dal blog di Sandro Magister

 

Sul volo di ritorno da Costantinopoli a Roma, interpellato da un giornalista russo ortodosso, papa Francesco ha fatto una battuta non immediatamente comprensibile dai non esperti:

“Dirò una cosa che forse qualcuno non può capire, ma… Le Chiese cattoliche orientali hanno diritto di esistere, è vero. Ma l’uniatismo è una parola di un’altra epoca. Oggi non si può parlare così. Si deve trovare un’altra strada”.

Per capire il senso di questa battuta viene in soccorso la seguente nota.

L’autore insegna storia della Chiesa ortodossa nell’università statale di Bologna e nella facoltà teologica dell’Emilia Romagna. È diacono e presiede la commissione per l’ecumenismo dell’arcidiocesi di Bologna.

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“PAROLA DI UN’ALTRA EPOCA”

di Enrico Morini

“Uniatismo” è una brutta parola, anche se è un termine ormai consacrato dall’uso ed è difficile farne a meno. L’alternativa corretta sarebbe infatti una parafrasi: “insieme dei cristiani orientali uniti a Roma”. L’espressione è stata coniata in ambito ortodosso, con un senso pesantemente dispregiativo, per designare il frutto di un’unione spuria, ingannevole, sleale e provocatoria.

Si tratta di un fenomeno iniziato, nella dinamica dei rapporti tra le Chiese, in età moderna, quando la Chiesa cattolica si rese conto che, dopo il fallimento dell’unione con la Chiesa ortodossa sottoscritto a Firenze nel 1439, qualsiasi altro tentativo di giungere ad una unione completa tra le due Chiese – anche per le mutate condizioni culturali e politiche dell’Ortodossia, sotto il dominio turco – non aveva più la benché minima possibilità di successo.

Si passò pertanto dall’obiettivo tradizionale, e più ambizioso, dell’unione globale con l’Ortodossia nel suo complesso, alla nuova strategia delle unioni parziali, strette con singoli episcopati di una regione, che accettavano sinodalmente i termini dell’unione sancita a Firenze, i quali comportavano l’accettazione del dogma cattolico con la garanzia di mantenere il proprio rito e, più in generale, le proprie tradizioni religiose (quale, ad esempio, il calendario giuliano).

Il fenomeno iniziò nel 1596 con l’unione, sancita a Brest, dell’episcopato dell’Ucraina orientale – allora sotto la corona unita polacco-lituana –, che guardava a Roma per superare una profonda crisi culturale e morale.

Continuò con l’unione sancita a Uzhorod nel 1646 da parte del clero ortodosso della Rutenia subcarpatica, allora nel regno d’Ungheria.

E si concluse con l’unione dei Romeni ortodossi di Transilvania, che seguirono il vescovo di Alba Iulia, nel 1700, nell’adesione alla Chiesa di Roma.

Poiché alla fine del XVIII secolo, sotto Caterina II, la Chiesa ucraina unita venne abolita per legge, ma la Santa Sede la riorganizzò nell’Ucraina occidentale, cioè in Galizia, attorno alla sede episcopale Leopoli (Lviv), tutti questi cattolici di rito orientale vennero a trovarsi all’interno dell’impero austro-ungarico, che si assunse il compito di proteggerli e di promuoverne lo sviluppo e dove essi assunsero la denominazione di greco-cattolici.

Nel frattempo anche nell’antico patriarcato di Antiochia – allora sotto i turchi – si era prodotto un movimento di riavvicinamento a Roma e quando, nel 1724, uno degli esponenti di questo movimento arrivò al patriarcato si produsse una scissione in questa Chiesa, che sussiste tuttora nel Vicino Oriente, tra greco-cattolici ed ortodossi, entrambi di lingua araba.

Infine successivamente la Santa Sede ha istituito degli esarcati apostolici in Russia (1917), in Bulgaria (1926) e in Grecia (1932) per i fedeli cattolici di rito “bizantino”, frutto dell’attività missionaria cattolica tra gli ortodossi.

Per gli ortodossi il fenomeno rappresenta una ferita sempre aperta. Non si tratta infatti semplicemente di rispettare la libertà religiosa: la loro avversione nasce da una incomprensione legata alla loro stessa ecclesiologia.

Gli ortodossi non concepiscono infatti il rito separato dal dogma: il modo in cui si prega è il riflesso di ciò che si crede. Da questo punto di vista gli “uniati” sono un ibrido mostruoso: hanno il rito ortodosso, ma professano la fede cattolica e, non essendo pertanto né ortodossi né cattolici, sono percepiti esclusivamente come uno strumento di propaganda, per svuotare di fedeli le Chiese ortodosse. In altri termini, sono come il “cavallo di Troia” per espugnare l’Ortodossia.

Quando queste Chiese ritornarono alla luce dopo il periodo del comunismo – che la aveva liquidate promuovendo il ritorno dei loro fedeli all’Ortodossia – gli ortodossi posero un aut-aut alla Chiesa cattolica: il dialogo teologico poteva proseguire soltanto dopo avere risolto il problema dell’”uniatismo”.

Ne uscì, nel 1993, il documento di Balamand, nel Libano, della commissione paritetica per il dialogo teologico, che però non è stato recepito né dalla Chiesa cattolica, per la quale era troppo severo nel giudizio storico sull’“uniatismo”, né dalla maggioranza delle Chiese ortodosse, che lo ritengono troppo permissivo nel difendere la sopravvivenza di queste Chiese. Anche una successiva sessione plenaria della commissione a Baltimora nel 2000, sempre su questo tema, si è conclusa con un nulla di fatto.

Le parole del Santo Padre, nel suo volo di ritorno da Costantinopoli, riprendono esattamente i termini del testo di Balamand, che del resto egli aveva già citato nell’intervista a “La Civiltà Cattolica” del 2013.

Il documento afferma che queste Chiese devono continuare ad esistere, in quanto ormai hanno conseguito una particolare fisionomia, una propria identità ecclesiale e culturale, all’interno del Cattolicesimo, che anche arricchiscono infondendo in esso la linfa vitale della spiritualità e della teologia orientale (basti pensare al ruolo del patriarca greco-cattolico di Antiochia, Massimo IV Saigh, al Concilio Vaticano II; il patriarca Atenagora gli disse: “Voi ci rappresentate!”) e hanno testimoniato con il sangue la loro fedeltà alla Chiesa di Roma.

Nel contempo il documento riconosce che il metodo di costruire l’unità tra le due Chiese attraverso le unioni parziali è oggi superato, in quanto ferisce la carità ed è assolutamente incompatibile con l’ecclesiologia delle Chiese sorelle.

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UNA POSTILLA – Tra gli “uniati” gli ucraini sono il gruppo più numeroso, con più di cinque milioni di fedeli. E sono anche quello più in conflitto con la Chiesa ortodossa. Sono infatti i greco-cattolici ucraini il principale ostacolo all’incontro tra il Papa e il patriarca di Mosca, con l’ulteriore aggravante – richiamata da Francesco nella conferenza stampa del 30 novembre – della guerra civile in corso nel paese.

Il prossimo 10 dicembre i greco-cattolici ucraini celebreranno a Kyiv il venticinquesimo anniversario del loro ritorno alla libertà, dopo il crollo dell’impero sovietico che li aveva forzatamente annessi all’ortodossia. E per l’occasione papa Francesco invierà come suo rappresentante il cardinale Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna e quindi della storica capitale di quell’impero asburgico che li protesse dall’imperialismo russo politico e religioso.