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Dopo il coronavirus tornerà la fede? Un’ipotesi sociologica
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13 Marzo 2020

Dopo il coronavirus tornerà la fede? Un’ipotesi sociologica

Dopo il coronavirus la fede delle persone subirà un colpo mortale oppure no? Guardando all’incapacità della cultura laica e secolarizzata di elaborare drammi anche più contenuti – e considerando la soppressione delle Messe, disposta come sappiamo qualche giorno fa – tutto lascia immaginare che l’affidarsi a Dio, domani, sarà ancora più raro; tanto più che la Chiesa stessa, al momento, eccettuate virtuose eccezioni, pare incapace di consolare come storicamente hanno fatto, durante le epidemie, molti santi.

Eppure, per quanto possa apparire contro intuitivo, c’è una voce che si leva in senso opposto e pare suggerire che, paradossalmente, proprio il Covid-19 possa propiziare un ritorno della fede. Curiosamente, non si tratta di una voce conservatrice e neppure di una voce religiosa bensì di quella – laicissima e insospettabile – della sociologia che, con più studi, ha documentato proprio come situazioni non difficili, ma proprio disastrose, siano associate al ritorno, tra la gente, alla fede.

Un esempio ci proviene da una ricerca, pubblicata nel 2012 su PLoS One, con cui si è studiato quanto avvenuto dopo un evento sismico molto grave; il terremoto che nel febbraio 2011 colpì Christchurch, in Nuova Zelanda: morirono 185 persone e i feriti furono oltre 1.500, con edifici crollati (inclusa la cattedrale locale) e un gran numero di sfollati. Una vera e propria tragedia, insomma.

Eppure, gli studiosi, esaminando quanto accaduto dopo quei fatti in Nuova Zelanda, si sono accorti che, se da una parte, nel Paese, il generale declino della fede proseguiva, dall’altra tra i terremotati, invece, si è registrato un risveglio religioso. Un risultato notevole che ha permesso agli autori di quella ricerca di considerare provata la «teoria del conforto religioso», secondo cui un disastro naturale, appunto, può determinare un ritorno alla ricerca della fede quale aiuto fondamentale. Attenzione, però, a pensare che i soli eventi sismici possano condurre a simili esiti.

Esistono difatti anche risultanze – pubblicate per esempio sul Southern Medical Journal nel 2007 – che dicono come, anche a seguito dell’11 Settembre 2001, negli Stati Uniti il 75% degli americani abbia dichiarato di aver fatto un affidamento moderato o consistente alla preghiera per far fronte allo stress derivante dagli attacchi terroristici. Ne consegue come la «teoria del conforto religioso» sia molto più di una affascinante ipotesi, risultando qualcosa di concreto, che potrebbe verificarsi anche in Italia a seguito dell’epidemia in corso.

Da questo punto di vista, anche la disposta chiusura delle chiese, paradossalmente, potrebbe incentivarne una più intensa frequentazione, una volta che saranno riaperte. E pure questo, si badi, non è un mero auspicio ma un’evidenza già riscontrata se pensiamo – per fare un parallelismo storico – all’Unione Sovietica, durante la quale la percentuale di persone che si recavano a Messa arrivò a percentuali minime, pari all’1 o 2% , mentre oggi in Italia risultava di poco inferiore al 20%.

Tuttavia, crollato il regime sovietico, in Russia si è assistito al risveglio religioso che conosciamo e che, agli occhi di più di uno studioso, rappresenta – unitamente alla già consolidata «eccezione americana» – una prova della debolezza della teoria della secolarizzazione secondo cui modernità e fede, essendo in conflitto, non possono coesistere.

Ne consegue, per quanto possa apparire strano, che una tragedia sanitaria e umana come quella in corso possa davvero, quando sarà finita, portare ad una riscoperta di quel Dio che, come ci insegna la teologia cristiana, non permetterebbe mai alcun male, se non in vista di un bene più grande.

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