E così ha parlato, o meglio ha scritto, dopo giorni di quella macchina del fango che non farebbe quasi notizia se non prendesse di mira Benedetto XVI. Che sì, ha 94 anni, è Papa emerito ed è ormai fuori dalla scena pubblica da 9 anni, ma per il mondo sempre reo di essere il “Papa teologo” e soprattutto il “Papa tedesco”.
Delle 903 parole utilizzate nella sua lettera, nei titoli dei giornali ne restano essenzialmente otto: «Grandissima colpa della Chiesa» e «Non sono un bugiardo», sintesi giornalistiche sicuramente del contenuto chiave di questo scritto che mette in luce un errore di trascrizione riguardo alla partecipazione dell’allora arcivescovo di Monaco ad riunione del 15 gennaio 1980, una svista, la chiama Raztinger «utilizzata per dubitare della mia veridicità, e addirittura per presentarmi come bugiardo». Un accusa non da poco seguita dal mea culpa «Preghiamo il Dio vivente pubblicamente di perdonare la nostra colpa, la nostra grande e grandissima colpa» e ancora: «Ancora una volta posso solo esprimere nei confronti di tutte le vittime di abusi sessuali la mia profonda vergogna, il mio grande dolore e la mia sincera domanda di perdono. Ho avuto grandi responsabilità nella Chiesa cattolica. Tanto più grande è il mio dolore per gli abusi e gli errori che si sono verificati durante il tempo del mio mandato nei rispettivi luoghi. Ogni singolo caso di abuso sessuale è terribile e irreparabile. Alle vittime degli abusi sessuali va la mia profonda compassione e mi rammarico per ogni singolo caso».
Ma non si può comprendere lo scritto di Ratzinger se non lo si legge per intero, soprattutto il paragrafo che fa meno notizia perché parla di un tema che il mondo rigetta, la vita eterna, ma che per Ratzinger è il fine di tutto: «Ben presto mi troverò di fronte al giudice ultimo della mia vita. – scrive – Anche se nel guardare indietro alla mia lunga vita posso avere tanto motivo di spavento e paura, sono comunque con l’animo lieto perché confido fermamente che il Signore non è solo il giudice giusto, ma al contempo l’amico e il fratello che ha già patito egli stesso le mie insufficienze e perciò, in quanto giudice, è al contempo mio avvocato (Paraclito). In vista dell’ora del giudizio mi diviene così chiara la grazia dell’essere cristiano. L’essere cristiano mi dona la conoscenza, di più, l’amicizia con il giudice della mia vita e mi consente di attraversare con fiducia la porta oscura della morte».
L’animo di Benedetto XVI non appare turbato dal fango che su di lui è stato gettato dal mondo, non appare angosciato nemmeno da tradimenti interni alla Chiesa, o da quanto accade dentro la Chiesa che lo ha generato, quella tedesca, è semplicemente certo di una Presenza Buona che incontrerà tra poco tempo e questo basta perché il suo animo sia lieto. Non porta rancore per quel mondo a cui chiede perdono, il suo cuore è rivolto al Cielo.
Ma così era anche nella lettera che Ratzinger ha vergato nel 2019, sempre sul tema abusi, decisamente meno apprezzata dal mondo perché osava mettere sul tavolo temi tabù come l’omosessualità, ma non solo. Quello del martirio. «Ci sono valori che non devono mai essere sacrificati per un valore maggiore e addirittura andare oltre la conservazione della vita fisica. C’è il martirio. Dio è (molto) più di una semplice sopravvivenza fisica. Una vita che fosse acquistata sulla base della negazione di Dio, una vita che si basa su una menzogna finale, è una non vita. Il martirio è una categoria fondamentale dell’esistenza cristiana. Il fatto che il martirio non è più moralmente necessario nella teoria sostenuta da Böckle e da molti altri, dimostra che qui è in gioco l’essenza stessa del cristianesimo».
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