Nelle ultime settimane, perché ormai le leggi del marketing dilatano a dismisura qualsivoglia evento possa generare un profitto, siamo stati sommersi da teschi, cappelli da streghe, zucche trasformate in “volti” angoscianti e via discorrendo. L’attenzione di molti, a partire dai bambini, passando per i giovani, fino ad arrivare finanche agli adulti, è stata fagocitata dalla fatidica serata del 31 ottobre, dalla cosiddetta festa di Halloween. Nulla di nuovo sotto il sole, sia chiaro: oramai sono anni che la storia si ripete senza variazione di sorta.
Anzi, forse l’unica variazione è che ogni anno che passa l’insistenza sulla questione si fa sempre più pressante e le persone che ne vengono avvinte sono sempre di più: vuoi per conformismo, per cui risulta impegnativo “chiamarsi fuori” dalla narrazione che va per la maggiore; vuoi per la voglia di “evadere” dalla quotidianità che spinge a cogliere ogni pretesto per dare vita a feste e scherzi di varia natura; vuoi per la secolarizzazione oramai imperante, per cui sono gli stessi cattolici a non avere più coscienza delle origine e del portato esoterico di Halloween, mentre la Chiesa si presenta come un interlocutore debole, dallo scarso appeal, incapace di proporre in maniera interessante una visione “altra”, che ponga l’accento sulla festa di Ognissanti.
Ma proviamo qui a guardare il fenomeno (in ascesa) di Halloween e i festeggiamenti (in declino) per la festa di Ognissanti secondo un’angolatura differente, ben sintetizzata da una frase del compianto cardinale di Bologna Carlo Caffarra: «Non possiamo lasciare inquinare le nostre tradizioni culturali. Non abbiamo nulla a che fare con la festa di Halloween. Essa rende più difficile, in particolare per i bambini, che ne sono i principali referenti, vivere un rapporto sereno con la morte». Pronunciata nel 2005, quindi oramai quasi vent’anni fa, quest’affermazione mette in luce un paradosso che si fa sempre più lapalissiano: mentre per la notte di Halloween ci si affanna a inseguire teschi et similia, viviamo un tempo in cui la tematica della morte è quasi un tabù.
Quando una persona muore, aleggia l’imbarazzo: ci si affida a frasi di circostanza per mitigare l’imbarazzo di non saper (più) dire una parola di conforto che possa andare oltre il dolore del presente, che possa aprire a una prospettiva eterna; ai bambini vengono raccontate storie fantasiose (per cui il nonno – o chi per lui – sarebbe partito per un lungo viaggio, o altro…) e viene negata loro la possibilità di partecipare agli stessi funerali, apparentemente come forma di “protezione” rispetto al dolore della perdita; le esequie funebri risultano quasi un proforma, così come gli elogi al defunto nel discorso del sacerdote o dei familiari; e la cremazione sta oramai soppiantando la sepoltura quale pratica comune, a indice del fatto che la dottrina della resurrezione dei corpi non è più un imprescindibile neanche per gli stessi cattolici: meglio raccogliere le ceneri e tenerle sulla credenza in salotto, o disperderle per terra o per mare…
Insomma, si scherza con la morte, la si pone sotto i riflettori, la si spettacolarizza con enfasi più o meno splatter, ma quasi per esorcizzarla. Perché la morte esce dagli stretti schemi della società di oggi: arriva senza preannunciarsi, imprevista; lascia un vuoto che non si può sanare, non ci sono soldi che tengano; e mostra tutto il limite di una visione puramente materialista, per cui la morte fisica segna il “The end”. Ma, soprattutto, la morte interroga sulla vita: perché, per cosa, si vive? Che senso ha l’esistenza?
Tutte domande che oggi spesso rimangono senza risposta, inghiottite da un vivacchiare frenetico e rumoroso che tenta di mettere a tacere, di silenziare gli interrogativi di senso che, presto o tardi, emergono in ognuno. Eppure rispetto a questo, in casa cattolica, abbiamo dei maestri che indicano la strada, e sono proprio coloro la Chiesa invita a ricordare nella festa odierna: i santi. I santi non sono persone speciali, fuori dall’ordinario, con particolari doti: sono invece coloro che hanno saputo ben vivere – e quindi ben morire! – perché avevano chiaro che l’orizzonte della loro esistenza era la vita eterna. Non un dolcetto effimero, bensì una promessa di gioia senza fine: una cosa seria, sulla quale non si scherza. E una cosa che è alla portata di tutti, senza eccezioni.
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