di Bernardo Cervellera, P.I.M.E.
Cinquanta anni fa, il 16 maggio 1966, Mao Zedong ha lanciato una campagna per eliminare i suoi rivali, iniziando quel periodo della storia cinese chiamata “Rivoluzione Culturale”. Nel tentativo di nascondere i suoi fallimenti per la campagna del Grande Balzo in Avanti (che hanno portato alla morte per fame almeno 35 milioni di persone), Mao ha spinto i giovani contro “i vecchi” del Partito per “purgare” la società. In questa vera e propria guerra civile, i figli hanno condannato a morte i genitori, gli studenti i loro insegnanti, le giovani Guardie Rosse gli anziani del partito e l’esercito. Si calcola che nel periodo, durato fino alla morte di Mao nel 1976, sono morti almeno 1,7 milioni di persone. Almeno altri 4 milioni di cinesi hanno subito il carcere o il lager; fra essi molti intellettuali, professionisti, personalità religiose.
Sotto lo slogan di una “rivoluzione permanente”, Mao ha spinto i giovani a combattere e distruggere i “quattro vecchi”: i costumi, le tradizioni, la cultura, il pensiero. Oltre alle persone, sono andati distrutti libri, dipinti, edifici, templi, congelando per oltre 10 anni studi e approfondimenti sulla cultura cinese, sulle religioni, rapporti con università e comunità internazionali (fra cui anche le Chiese e il Vaticano).
Questo periodo viene ricordato dai cinesi con angoscia e definito il “grande caos” (da luan), ma di più in pubblico non si dice.
Per questo non sorprende – anche se è piuttosto strano – che oggi nessun grande giornale in Cina abbia ricordato questo anniversario, che ha inciso e ferito la memoria e le paure dei cinesi. Ed è curioso che mentre molte università straniere studiano questo periodo così determinante per la storia della Cina, all’interno il Partito comunista non permette alcuno studio approfondito e alcun dibattito pubblico.
Nel marzo scorso, all’avvicinarsi dell’anniversario, un editoriale del Global Times, il magazine del Quotidiano del Popolo, ha messo in guardia chiunque osi presentare interpretazioni o riflessioni sulla Rivoluzione culturale che siano diverse dalla interpretazione ufficiale. “Le riflessioni – si dice nel testo – sono normali… ma esse non devono aggiungere o cambiare il verdetto politico ufficiale”.
Tale verdetto politico è quello emesso dal Partito nel 1981, secondo cui quel periodo è stato “una catastrofe”, da attribuire soprattutto alla famosa “banda dei Quattro”, gli stretti collaboratori di Mao Zedong. Nulla si dice delle responsabilità dello stesso Mao, che aveva definito la Rivoluzione culturale uno dei suoi migliori risultati.
Ancora oggi il Partito non osa alzare il velo sulle responsabilità del “Grande timoniere” e su quelle degli altri quadri, e dopo 50 anni non ha portato alcuna giustizia alle vittime, né alcuna scusa per coloro che hanno sofferto.
Il problema ha una sua attualità perché molti osservatori dentro e fuori della Cina affermano che il Paese si sta dirigendo verso una nuova Rivoluzione culturale: ne è prova il grando controllo sui media, su internet, sugli insegnamenti accademici, sulle religioni, come pure il lievitare di un nuovo culto della personalità che osanna il presidente Xi Jinping.
Secondo molti riformisti, il disastro e le violenze della Rivoluzione culturale vanno studiati perché essa mostra la fragilità del sistema costruito da Mao, con l’identificazione del Partito e dello Stato e l’accentramento del potere in una sola persona. Per questo essi chiedono riforme di tipo economico – valorizzando le imprese private e lasciando che il mercato decida della sorte delle gigantesche imprese statali – ma anche di tipo politico, garantendo indipendenza alla magistratura, favorendo elezioni interne, lasciando più libertà alla società civile.
Mentre i riformisti desiderano una società più liberale che dia più respiro anche all’economia, vi sono anche gruppi che desiderano il ritorno alla Rivoluzione culturale, o domandano un rafforzamento del Partito-Stato, accusando le modernizzazioni economiche di aver distrutto l’ideale maoista di uguaglianza, lasciando spazio alla corruzione e a un profondo abisso fra ricchi e poveri.
Forse è da attribuire a questa fazione lo spettacolo ufficiale tenutosi il 2 maggio scorso inpiazza Tiananmen, in cui la corale dei “56 fiori” ha reso omaggio a Mao riempiendo l’aria di “canzoni rosse”, dove si esalta “il sole eterno del pensiero di Mao Zedong” e lo “stringersi al Partito” da parte delle masse rivoluzionarie.
Le diverse posizioni danno luogo a una lotta interna, in cui però domina la personalità di Xi Jinping che alla fine esige il silenzio sulle critiche al Partito, timoroso che avvenga per la Cina quanto è accaduto al Partito comunista sovietico.
L’anniversario della Rivoluzione culturale dovrebbe essere anche un’occasione di revisione per tutti quei politici e intellettuali occidentali che al tempo osannavano Mao e la “rivoluzione permanente” come il paradiso in terra e nascondevano le violenze, le torture, le uccisioni e le distruzioni. I silenzi occidentali di allora sono simili ai silenzi di oggi. Con una differenza: ieri si voleva salvare l’ideologia maoista; oggi si vuole salvare gli investimenti cinesi in Europa o europei in Cina. Ma la conclusione è sempre la stessa: è il popolo a soffrire.