E se la secolarizzazione fosse anche un problema di salute pubblica? Ad avanzare questo dilemma, senza troppi giri di parole, sono due studiosi, Tyler J. VanderWeele e Brendan Case, i quali hanno firmato in proposito un lungo articolo sul giornale on line Christianity Today. Premessa: non stiamo parlando di due giornalisti né di due esperti della domenica, tutt’altro. VanderWeele e Case lavorano ad Harvard, sono specialisti di livello internazionale, scienziati. Eppure, ciò non impedisce loro di leggere l’abbandono della religione come una questione che rischia di avere costi sociali pesanti.
«L’abbandono della religione», scrivono, «sta danneggiando anche il benessere di coloro che hanno smesso di frequentare le chiese». E questo perché «la partecipazione religiosa promuove fortemente la salute e il benessere», con il risultato che gli effetti negativi della disaffezione religiosa «sono destinati ad aumentare nei prossimi anni».
D’accordo, ma quali sono gli effetti positivi della fede praticata sulla vita delle persone? VanderWeele e Case ne elencano un numero impressionante. «Numerosi studi di ricerca ampi e ben progettati», osservano, «hanno scoperto che la frequenza al servizio religioso è associata a una maggiore longevità, meno depressione, meno suicidi, meno fumo, meno abuso di sostanze, migliore sopravvivenza al cancro e alle malattie cardiovascolari, meno divorzi, maggiore sostegno sociale, maggiore significato nella vita, maggiore soddisfazione esistenziale, più volontariato e maggiore impegno civico».
Il fatto che la gran parte di questi studi sia stata condotta in contesti angloamericani – e quindi riguardi credenti cristiani – non può lasciare evidentemente indifferenti. E pone interrogativi non solo sugli effetti che potrà avere la secolarizzazione, ma anche su quelli che, in realtà, ha già avuto. VanderWeele e Case sono i primi a porsi l’interrogativo: «Al calo della frequenza al servizio religioso è riconducibile circa il 40% dell’aumento dei tassi di suicidio negli ultimi 15 anni. Se si fosse potuto prevenire il calo delle presenze, quante vite si sarebbero potute salvare?». Si tratta di una domanda fondata, che interpella tutti.
Chiaro, un buon cristiano non va certo a messa perché glielo consiglia il dottore; né, giustamente, i pastori ragionano come responsabili di distretti sanitari. Tuttavia, studi e rilevazioni come quelli richiamati dagli studiosi di Harvard dovrebbero far riflettere. Anche perché non sono certo i soli.
Ancora una ventina di anni fa, per esempio, era stato un team di ricercatori italiani, precisamente dell’Università di Pavia, a pubblicare sul prestigioso British Medical Journal un lavoro sui benefici della salute della recita del rosario, altro strumento di preghiera da molti visto come un polveroso arnese da vecchiette; quando invece non lo è affatto, determinando, una volta recitato, dei benefici tangibili sul ritmo cardiaco.
VanderWeele e Case non hanno insomma inventato nulla. Semplicemente, ricordano che una società che volta le spalle alla religione, non danneggia la chiesa. Fa del male anzitutto a sé stessa. Perché anche se non disponiamo di set di dati sul paradiso, come scrivono i ricercatori di Harvard, quelli terreni invece ci sono. Anzi, abbondano. E dicono una cosa chiara: andare a messa fa bene e, smettere di farlo, ha il suo bel prezzo. Anche per l’intera collettività.
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