XXVI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – ANNO A
Ottobre, un nuovo tempo dentro il cammino liturgico che rispecchia il percorso di vita e di santità tracciato per ogni battezzato. Un’esistenza che sovente ci interpella nel prendere decisioni responsabili e per le quali è fondamentale trovare criteri e ispirazioni in un sapiente discernimento. Per il credente, l’unico punto di riferimento, il vero modello per ob-audire, è Cristo, di cui porta il nome.
Questa Domenica il Signore orienta ancora, dice «Venite e imparate da me», dai miei «sentimenti». Non certo una serie di nozioni, un pacchetto di conoscenze, ma una esperienza conformatrice per essere come lui. Sarebbe un peccato oggi limitarsi alla proclamazione della forma breve proposta per la seconda lettura: l’insegnamento di Paolo resterebbe incompleto senza la descrizione di quella docilità con cui e in cui trasformarci. L’apostolo parla di Gesù in tutta sua umanità e divinità, dallo svuotamento, dall’umiliazione, dall’obbedienza, dalla morte, fino all’esaltazione: l’Uomo-Dio che sembra dire «no» quando afferma «Passi da me questo calice», «Perché mi hai abbandonato?»; il Dio-Uomo che proclama «sia fatta la tua volontà» e consegna lo spirito.
Quando manca tale sintonia, la profonda e robusta unione con Cristo, rimane solo la lamentela verso un Dio per noi ingiusto, contestandone – insieme alla casa d’Israele a cui Ezechiele si rivolge – il suo agire “sbagliato”. Dipingendolo onnisciente e onnipotente, gli si attribuiscono le colpe per quanto ha deciso arbitrariamente se non dispoticamente da «Signore», non da padre, come se non avessimo la grazia e le capacità di poter collaborare. L’uomo che non si riconosce figlio affoga in quella passività secondo la quale tutto è dovuto finché va bene, si arrende, oppure si adira quando non ritrova quanto pretende.
Chi non si è mai ritrovato nella situazione di entrambi i protagonisti della parabola evangelica? Dall’entusiasmo iniziale al ripensamento, dall’impulsivo rifiuto al rimorso; dal timore di disubbidire per non fare brutta figura al sincero mettersi in discussione. Non può essere mera questione morale, dev’essere intesa come l’essenza della sequela. Ecco perché è sempre più urgente il bisogno del pentimento, per riscoprire la “rettitudine” del nostro agire conformemente al disegno divino, affinché si riveli a noi la pienezza della misericordia e del perdono, per avere vita e salvezza, senza appellarci alla meritocrazia. «Non che dice “Signore, Signore…”, ma chi fa», però liberi dall’apparenza, dal legalismo, dalla tiepidezza e dalle rivendicazioni.
Noi, che abbiamo «visto “quelle” cose», possiamo solo pregare con le parole offerte oggi dal salmista e invocare colui che «drizza ciò che è sviato», perché la nostra «voglia» sia almeno somigliante alla volontà del Padre ed essere disposti a «passare avanti», senza gareggiare per occupare i «primi posti», ma ricevere quello che lui «ha preparato» per noi.
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