Quando parliamo di preghiera pensiamo subito all’uomo in atteggiamento umile che chiede a Dio qualcosa, e in generale questo qualcosa risponde al soddisfacimento dei propri bisogni. Questo di per sé non è sbagliato: Gesù stesso nel Vangelo ci ha chiesto di bussare, di chiedere, di domandare anche il pane quotidiano.
Il significato principale
Ma la natura della preghiera è altra: essa presuppone il nostro incontro con Dio, a prescindere da quello che possiamo chiedere o ricevere. È un bisogno prima di tutto dell’anima di unirsi al suo Creatore, al suo Padre, al suo Tutto.
La preghiera è rischiosa: dopo un po’ ci accorgiamo che Dio è persona e che ci chiede qualcosa, e forse qualcosa che non ci aspettiamo, e forse nemmeno desideriamo. La nostra natura si ribella a volte alle richieste di Dio, e per questo è più facile “anticipare” Dio con le nostre richieste, e quindi non ascoltarlo, non renderci docili prima di tutto alla sua presenza.
Nei racconti dei Chassidim si racconta di quel rabbino ebreo che prima di iniziare la preghiera andava a salutare la moglie, ad abbracciare i figli, e a chi gli domandava il perchè di questi atteggiamenti egli rispondeva: «Sto andando a pregare: non so come tornerò, e se tornerò».
Così deve essere il nostro primo atteggiamento. Scrive Abraham Joshua Hescel (1907-1972), uno dei maggiori studiosi dell’ebraismo e docente di mistica ebraica: «Non è corretto descrivere la preghiera come il discorrere tra gli uomini; noi non comunichiamo con Dio: ci rendiamo comunicabili a Lui. La preghiera è effusione del cuore davanti a Dio: non è rapporto tra due soggetti, ma è il tentativo di diventare oggetto al suo pensiero. Per colui che pensa, Dio è un oggetto, per l’uomo di preghiera Egli è il soggetto. Quando ci troviamo in presenza di Dio ci sforziamo non di acquisire una conoscenza oggettiva, ma piuttosto di rendere più profonda la fedeltà tra noi e Dio. Ciò che desideriamo non è conoscere Lui, ma essere conosciuti da Lui».
Strano a dirsi: nella preghiera l’iniziativa è di Dio. È Lui che ci chiama, che ci vuole, che ci attira. Egli ha bisogno di noi perché ci ha creati e vuole donarci il suo Amore divino. La preghiera allora non è che la risposta dell’uomo.
Don Divo Barsotti (1914-2006) iniziava sempre la sua giornata con due preghiere; la prima era: «Ascolta Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo», tratta dal Deuteronomio, e la seconda era: «”Padre nostro, che sei nei cieli…”. Questo significa: prima l’ascolto, poi la risposta. Nell’ascolto io imparo che Dio è Uno solo, e nella riposta dico subito: Padre mio…».
Davanti a un Dio che è Persona
In un certo senso, a un Dio impersonale puoi far dire quello che vuoi, e continuare a vivere la tua piccola vita, organizzarti tu un sistema morale più o meno buono, e vivere secondo tale legge umana, mentre se Dio è persona, significa allora che tu ti rendi disponibile a Lui, e Lui ti può chiedere di tutto.
Per pregare occorre pertanto l’atto di fede iniziale che ci metta in relazione con Dio, il Dio del roveto ardente di Mosè, il Dio che parlò ad Abramo, il Dio che si fece uomo e ci chiese di seguirlo e di lasciarsi amare da Lui. Scrive don Divo Barsotti: «La preghiera è possibile perché è Dio che ha preso l’iniziativa. Dunque, è Lui che prega. La nostra preghiera presuppone Lui. Non potremmo parlare a Dio senza che prima Lui parli a noi, e la nostra preghiera tanto più è vera quanto più noi sentiamo che è Lui il primo che parla, il primo che entra nella nostra vita, e ci dà speranza, ci viene in soccorso, ci conosce e ci ama. È la fede che ci dà la possibilità della preghiera».
Fiducia completa
L’uomo di preghiera dunque si “lascia fare” da Dio, e si fida di Lui. Questa è la grande sfida della preghiera cristiana, ed è anche questa la carenza che si può vivere nel nostro rapporto con Dio: la mancanza di fiducia in Lui. Abbiamo paura che il Signore ci chieda dei sacrifici, delle rinunce, qualcosa che non concordi con le nostre scelte di vita… e allora è meglio che Dio non parli proprio. Non a caso in apparizioni private ad anime sante come su or Faustina Kowalska (1905-1938) o suor Josefa Menendez (1890-1923), il Signore si rammarica proprio della mancanza di fiducia da parte dei cristiani.
«Non contano nemmeno i peccati – dice Gesù alla Menendez – se l’anima subito si rivolge con fiducia illimitata in me». «Ciò che mi ferisce di più – rivela alla Kowalska – è proprio la mancanza di fiducia da parte dei cristiani, soprattutto delle anime consacrate».
Gesù stesso ha conosciuto questo passo della fiducia nella sua vita visibile, proprio nel momento terribile della Passione: nel Getsemani Egli prega, sì, prega il Padre che Egli allontani da Lui il calice del dolore. Poi si accorge che anche il Padre prega: prega il Figlio di accettare il calice, perchè da questo ne sarebbe venuta la salvezza del genere umano.
Ma se l’uomo dà questa piena fiducia a Dio, sapendo che tutto quello che Egli chiederà è il nostro vero bene, perché ci ama, allora tutto diventa semplice. È come nell’amore: quando si è innamorati, basta che l’altro sia, e siamo disposti a tutto per dargli gioia. L’incontro di Dio con l’uomo è per la gioia dell’uomo. Se solo si capisse questo, il problema sarebbe non quando pregare, ma quando smettere di pregare. La preghiera allora è questione di un istante, e quell’istante è tutto: consegnare totalmente noi stessi a Dio in uno slancio di fiducia illimitato, e rimanere quieti in silenzio davanti a Lui.
Le parole nella preghiera
Certo, la preghiera è fatta anche di parole, perché non esiste un amore muto. Allora saranno parole di richiesta, di lode, di supplica, di lamentela, di adorazione, di ringraziamento. di tutto quello che volete, ma sempre con quella base di fiducia che l’uomo dà al suo Signore, lasciandogli quello spazio interiore in cui Dio stesso imprime nei nostri cuori le Sue parole, che sono parole di amore, di speranza, di comunione, di pace profonda. Parole di fuoco.
In questo senso la preghiera è di natura assolutamente contemplativa.
Nel silenzio del nostro cuore finalmente disponibile Dio parla; nel silenzio.
L’uomo si effonde in Lui e risponde, come gli viene di rispondere: a quel punto qualunque cosa dice va bene, perché è il figlio che parla al Padre.
Una volta in una parrocchia mi fu chiesto di guidare un’ora di adorazione.
Volevo impostare tale momento con tre quarti d’ora di silenzio e un quarto d’ora di preghiera vocale. Il parroco mi disse che i suoi parrocchiani non avrebbero sopportato tanto silenzio, che si sarebbero distratti; allora proposi di fare mezz’ora e mezz’ora. Neanche quello fu accettato. Alla fine ottenni di poter fare dieci minuti iniziali di silenzio e cinquanta minuti di canti e preghiera vocale. E mi sembrò poi che anche in quei dieci minuti non si riuscisse a fare spazio al Signore che voleva dirci qualcosa.
Le esigenze di Dio non sono standardizzate. Egli ci fa conoscere il mondo dell’amore man mano entriamo in questa complicità di fiducia, e al termine ci può chiedere anche di portare la Sua croce, per salvare il mondo.
Infatti, sono proprio i cristiani che, con la loro offerta e preghiera, salvano ancora il mondo. Chi salva è Dio, ma generazione per generazione attraverso di noi. Il modo migliore per amare il prossimo è proprio pregare per lui, perché il Signore lo perdoni dei peccati e lo purifichi, e per ottenere questo il mezzo è la partecipazione al Sacrificio della croce. Ma anche questo non è imposto mai: è accettato e vissuto nella preghiera e nella fiducia.
La preghiera intesa in questo modo, infine, dà gioia. Un’anima così abbandonata a Dio nella preghiera conoscerà una pace interiore che la sorprenderà. San Serafino di Sarov (1759-1833), il grande monaco russo, era meravigliato che tantissimi andassero da lui per parlargli, per cercarlo, per chiedergli una parola. Lui stesso non sapeva spiegarsi come mai tante persone, anche professori e nobili, andassero da lui, povero illetterato. E spiegava: «Basta trovare la pace del cuore, e migliaia attorno a te vengono, e trovano salvezza». Non diceva però che per trovare questa pace interiore egli aveva trascorso tutta la vita in questo pellegrinaggio interiore verso il proprio cuore, dove viveva il Signore Gesù, più intimo a noi di noi stessi, e aveva passato tutte le sue giornate invocando il suo dolcissimo e santissimo nome: «Signore Gesù, abbi pietà di me peccatore!». (da Il Timone n. 79, Gennaio 2009).
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