di Tommaso Scandroglio
su «La nuova Bussola Quotidiana»
La dottoressa Alessandra Rigoli, medico specializzando, ha scritto un articolo sulla rivista Vita in merito alla vicenda del piccolo Charlie, bambino affetto da una grave malattia genetica. Molti i punti toccati dal medico che si professa cattolica, che vale la pena riprendere perché sintetizzano la posizione di molti altri medici cattolici che si sono espressi in questi ultimi giorni. Ovviamente per motivi di spazio qui possiamo solo accennare ad alcuni dei punti in questione.
Il tema principale è il seguente: interrompere i trattamenti e le terapie a cui Charlie è sottoposto configura rifiuto dell’accanimento terapeutico (AT) oppure eutanasia?
QUAND'E' ACCANIMENTO?
In merito all’AT tre sono gli indici da tenere in considerazione enunciati da Giovanni Paolo II nell’Evangelium vitae (65, a commento di questo numero e presenti nel documento della Congregazione per la Dottrina della Fede Iura et bona (IV).
PRIMO: la proporzione tra effetti negativi e positivi. Su un piatto della bilancia si devono mettere gli aspetti negativi che provocano le terapie – sofferenza, costi, invasività, diminuzione permanente o meno di funzioni, difficoltà delle terapie, etc. – e dall’altro gli aspetti positivi – guarigione, allungamento della vita, miglioramento delle condizioni di vita cioè ad esempio conservazione, ripristino o perfezionamento di funzioni etc.. Sproporzionato ad esempio potrebbe essere spendere mille euro e soffrire molto per farsi passare un raffreddore o per protrarre la vita di qualche giorno ad un paziente terminale. Proporzionato invece nel caso in cui ci fosse la possibilità di salvare una persona.
SECONDO: il calcolo delle probabilità in merito agli effetti positivi tenuto conto del valore dell’effetto positivo sperato. E così una probabilità di uno su mille per salvare una vita umana giustifica terapie molto dolorose, non così se ci fosse una probabilità di uno su mille per farsi passare una banale influenza.
TERZO: le condizioni del paziente: i primi due criteri vanno declinati nel quadro clinico specifico.
Passiamo ora a ciò che dice la dottoressa: “Interrompere un trattamento in questo caso non si tratta di eutanasia, cioè di fare qualcosa che di per sé causa la morte come fine ricercato. Si tratta invece di interrompere alcuni atti medici, artificiali, che tengono in vita, ma senza alcun risultato in termini di autonomizzazione presente o futura e questi atti medici possono essere messi in atto in fase acuta, non per sempre”.
DOVE STA L'INGANNO?
Attenzione perché qui, e siamo certi della buona fede della giovane dottoressa, si cela l’inganno. Facciamo il caso che ci sia una terapia X studiata per riattivare i mitocondri di Charlie che non producono più energia e così restituirgli la propria “autonomizzazione”, per usare un termine scelto dalla dottoressa. La terapia è sperimentale, di difficilissima applicazione, molto costosa, assolutamente gravosa per il fisico di Charlie, assai dolorosa e con remotissime speranze di successo, inoltre si aggiunga che la terapia non guarirà in modo definitivo il piccolo, ma gli ridarà le forze solo per breve tempo. Attivare tale terapia potrebbe essere giudicato correttamente un accanimento terapeutico perché la terapia è sì finalizzata a curare i mitocondri (effetto positivo), ma gli effetti negativi superano quelli positivi e gli effetti positivi sono assai incerti. Insomma il gioco non vale la candela.
LA VENTILAZIONE E' ACCANIMENTO?
Ma nel caso di Charlie non si sta parlando di questa terapia, bensì della ventilazione assistita. La ventilazione assistita non è direttamente finalizzata a guarire Charlie, bensì a farlo respirare e quindi a farlo vivere. La Congregazione per la Dottrina della Fede (CDF) nel 2007 rispose ad un quesito riguardante l’idratazione e la nutrizione artificiale posto dalla Conferenza episcopale statunitense. Il quesito era il seguente: “È moralmente obbligatoria la somministrazione di cibo e acqua (per vie naturali oppure artificiali) al paziente in ‘stato vegetativo’, a meno che questi alimenti non possano essere assimilati dal corpo del paziente oppure non gli possano essere somministrati senza causare un rilevante disagio fisico?”.
La Congregazione così rispose: “Sì. La somministrazione di cibo e acqua, anche per vie artificiali, è in linea di principio un mezzo ordinario e proporzionato di conservazione della vita. Essa è quindi obbligatoria, nella misura in cui e fino a quando dimostra di raggiungere la sua finalità propria, che consiste nel procurare l’idratazione e il nutrimento del paziente. In tal modo si evitano le sofferenze e la morte dovute all’inanizione e alla disidratazione”. La risposta non fa riferimento alla ventilazione, ma per analogia di principi possiamo applicare quanto detto anche alla ventilazione, trattamento che risponde ad una “fame” di ossigeno. Se la ventilazione dimostra nel caso specifico di raggiungere la finalità sua propria – cioè l’ossigenazione – allora non è accanimento terapeutico. Nel caso di Charlie la ventilazione assistita risponde efficacemente alla finalità intrinseca dell’atto stesso e dunque non è AT.
Ribadiamo: non si deve chiedere alla ventilazione assistita di combattere la patologia di cui è affetto Charlie, perché non è nella natura della ventilazione guarire i mitocondri. Qui sta l'errore: si qualifica la ventilazione (insieme agli altri presidi medici ordinari a cui presumibilmente Charlie è sottoposto: antipiretici, antibiotici, farmaci antiepilettici etc.) come accanimento terapeutico perché non fa migliorare Charlie, non gli fa recuperare la sua autonomia e dunque è inutile. Ma non è questo che si deve chiedere alla ventilazione. Per valutare se abbiamo AT occorre giudicare la natura degli interventi specifici, cioè il loro fine intrinseco. Lo ripetiamo: non possiamo chiedere alla ventilazione di svolgere le funzioni della terapia X che interverrebbe sui mitocondri.
Detto questo si potrebbe comunque sollevare un’obiezione: l’effetto positivo di mantenere in vita Charlie grazie alla ventilazione è proporzionato rispetto agli effetti negativi che lui sopporta provocati dalla ventilazione stessa? La dottoressa descrive così la ventilazione assistita su Charlie: “Tenere un bimbo intubato per un mese significa arrecare dei grossi danni alla trachea, significa causargli infezioni severe e letali, significa tenerlo sedato in una condizione di grande sofferenza (provate a pensare cosa vuole dire avere un tubo in gola, che passa per le corde vocali, dover essere aspirato in trachea ogni 2 ore, senza poter deglutire e così via…)”. I giudici inglesi dell’Alta Corte analogamente scrissero in sentenza: “l’essere ventilati e aspirati, come nel caso di Charlie, può causare dolore”.
Risposta che chiama in causa la ragione prima dei sentimenti: la sofferenza dell’intubazione è proporzionale al beneficio atteso dalla ventilazione, cioè vivere, che – tra l’altro – rimane un dovere morale. Torniamo a quanto detto dalla Congregazione per la dottrina della fede: i vescovi chiedevano se era AT idratare e nutrire artificialmente anche nel caso ciò provocasse “rilevante disagio fisico”. La CDF non fa riferimento al disagio fisico come criterio lecito per sospendere questi mezzi di sostentamento vitale e quindi la esclude (non così invece, ahinoi, la recente e discussa Nuova Carta degli operatori sanitari pubblicata dal Pontificio Consiglio per gli operatori sanitari: si legga qui un nostro commento perché di fronte alla preziosità elevatissima del bene vita l’unico dolore che si può rifiutare, secondo i criteri proporzionalisti prima accennati, è quello oggettivamente insopportabile (ad impossibilia nemo tenetur). Tutte le terapie provocano disagio, sofferenza e spiacevoli effetti collaterali: occorre verificare se sono proporzionate al beneficio atteso. Nel caso di Charlie la sofferenza patita è proporzionale al beneficio ottenuto perché gli permette di vivere.
Inoltre la stessa dottoressa ci conferma che Charlie è sedato e quindi non soffre o non soffre acutamente. Si aggiunga che nel caso di Charlie farlo vivere ancora un po’ gli permetterebbe di essere sottoposto ad una terapia sperimentale negli Usa, i cui effetti terapeutici sono improbabili, ma a fronte della probabilità elevatissima di morire il gioco vale la candela e dunque anche in questo caso non sarebbe AT.
Ma mettiamo il caso che non esistesse questa terapia: Charlie dovrebbe essere considerato sicuramente un malato terminale. Scrive la Rigoli: “Protrarre questi trattamenti non ha alcuno scopo, significa solo procrastinare un decesso inevitabile e facendo soffrire senza alcuno scopo, prolungare una vita naturalmente destinata a spegnersi attraverso atti medici estremamente invasivi e dolorosi”.
INTERROMPERE LA RESPIRAZIONE E' EUTANASIA?
La condizione di malato terminale giustifica l’interruzione della ventilazione assistita? No, perché anche in questo ultimo tratto di esistenza la ventilazione rappresenta uno strumento sempre proporzionale ai fini propri, cioè ossigenazione e quindi mantenimento in vita fino a quando il piccolo si spegnerà. Ovvio poi che accanto alla ventilazione devono essere posti quei presidi che sopprimano o allievino la sofferenza (è la sofferenza da sopprimere, non Charlie).
Dunque togliere la ventilazione non è rifiuto dell’AT, ma gesto eutanasico. E si parla di eutanasia attiva e non omissiva, dato che c’è un gesto attivo/positivo per staccare Charlie dalla ventilazione. Come abbiamo già avuto modo di chiarire il ragionamento erroneo è questo: la ventilazione tiene in vita Charlie, ma la sua vita è gravata da una condizione di forte disabilità e sofferenza. Tenerlo in vita significa continuare a farlo soffrire, ergo togliamo quei presidi che non servono a farlo guarire ma che solo perpetuano la sua sofferenza. Non farlo significa scegliere l’AT.
Questo è stato anche il ragionamento dell’Alta Corte: “Anche prima che Charlie iniziasse a soffrire di crisi in data 15 dicembre 2016, il giudizio unanime clinico era che la sua qualità di vita era così scarsa che non doveva essere sottoposto a ventilazione a lungo termine”. Se la qualità della vita non è apprezzabile continuare a vivere configura accanimento terapeutico. Stesso parere è sposato dall’istituto cattolico Bioethics – Anscombe Centre di Oxford il quale il 5 luglio scorso ha emanato un comunicato stampa in cui si legge tra l’altro: “Le affermazioni in merito al fatto che la ventilazione potrebbe causare sofferenze e che la stessa sta producendo solo una ‘qualità della vita’ scarsa (relativamente allo stato di salute e di benessere) costituiscono congiuntamente un interrogativo sul fatto che questo particolare trattamento sia valido. Si può discutere su tale conclusione, ma questo modo di ragionare è eticamente difendibile”. Più avanti il centro di bioetica si premura di precisare che ogni vita è degna di essere vissuta, ma rimane il fatto che anche per i bioeticisti cattolici inglesi la ventilazione obbliga Charlie ad una vita di bassa qualità e quindi sarebbe eticamente giusto staccare il ventilatore. Ed infatti più avanti affermano che qualora i genitori decidessero di staccare il respiratore “la decisione stessa è moralmente difendibile”.
CHARLIE SOFFRE PER LA MALATTIA
Veniamo alla risposta: la sofferenza che potrebbe configurare AT deve essere provocata dalla terapia, non dalla patologia. Se la terapia X è sproporzionata perché, a fronte dei pochi e lievi benefici, mi fa soffrire molto allora possiamo avere AT. Ma se io soffro molto a causa di una certa patologia – come nel caso di Charlie – non è lecito astenersi dal sottopormi a terapia, per sé proporzionata a debellare la patologia, o interrompere i sostegni vitali (es. ventilazione) perché tenendomi in vita continuerebbero a farmi soffrire. Che si applichino invece queste terapie e non si interrompano i mezzi di sostentamento vitale, nonchè le cure e trattamenti palliativi. In breve si vuole togliere la ventilazione credendo che sia lei la colpevole della sofferenza di Charlie, sofferenza che invece è da addebitarsi alla patologia di cui è affetto. E’ la malattia ad accanirsi su Charlie, non la ventilazione.
Ecco quindi che in merito al caso Charlie l’interruzione della ventilazione rientra perfettamente nella definizione di eutanasia indicata dalla CDF: “Per eutanasia s’intende un’azione o un’omissione che di natura sua, o nelle intenzioni, procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore”. Si vuole stubare Charlie per non farlo soffrire più. E dunque non è condivisibile l’affermazione della Rigoli: “La sospensione del supporto ventilatorio non è sinonimo di mettere un cuscino in faccia al bambino”. Il fine infatti è quello di eliminare ogni dolore uccidendolo: che poi la morte sia provocata interrompendo la ventilazione assistita oppure soffocandolo con cuscino, oppure facendogli una iniezione letale poco cambia.
A margine ma non troppo: la dott.ssa Rigoli ci comunica che le sono capitati casi simili a quelli di Charlie e in un caso “l'ho tenuto in braccio a lungo nelle ore in cui si stava spegnendo dopo che abbiamo tolto il tubo (si fa così ovunque, non solo a Londra)”, rivelandoci quindi che lei e/o i suoi colleghi hanno staccato il tubo che ha provocato la morte di un bambino.
In sintesi: la ventilazione su Charlie non configura AT, ma mezzo di sostentamento vitale proporzionato ai fini propri, anche tenuto conto dei disagi della ventilazione stessa e della sua eventuale, ma non certa, condizione di paziente terminale. La gravità del quadro clinico non è dovuta alla ventilazione, bensì alla patologia. Togliere la ventilazione è atto eutanasico perché si vuole provocare la morte del minore per non farlo più soffrire.