A seguire, intervento integrale di Mark Regnerus – professore di sociologia presso l’Università del Texas ad Austin e presidente dell’Austin Institute for the Study of Family and Culture – ripubblicato con l’autorizzazione di Public Discourse
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Sono molto preoccupato in qualità di sociologo per il disordine metodologico che ha caratterizzato l’enorme e ingombrante impresa di raccolta e analisi dei dati di questo Sinodo.
“Sinodalità” è un termine equivoco che i cattolici più attenti stanno discutendo in questo periodo, ma il cui significato è abbastanza comune. “Sinodalità” si riferisce alla partecipazione attiva di tutti i fedeli alla vita e alla missione della Chiesa, mentre “sinodo” fa riferimento a un consiglio o a una riunione di leader ecclesiastici, non diversamente da quelle di altre confessioni cristiane. Nella Chiesa cattolica, un sinodo è composto principalmente da vescovi, che riflettono su una particolare questione o tema sotto la guida dello Spirito Santo. Nel caso in questione, il sinodo dell’ottobre 2023 riguarda la sinodalità stessa: una discussione sulla natura dell’autorità all’interno della Chiesa cattolica, istituzione associata a strutture gerarchiche più che a strutture orizzontali.
Un tema centrale dell’attuale papato è quello di favorire un maggiore coinvolgimento dei laici nel governo della Chiesa, e forse maggiori democratizzazione, flessibilità e autonomia. Pochi contestano il primo punto, che tuttavia innervosisce alcuni. Altri, invece, nutrono dubbi sugli ultimi tre aspetti e temono che le conferenze episcopali tedesca e belga utilizzeranno il sinodo come mezzo per indebolire l’autorità di dottrine morali fondamentali. Che cosa papa Francesco pensi a questo riguardo non è del tutto chiaro.
Nel tentativo di misurare il sensus fidei, o “istinto di fede” (tra i fedeli), una parte iniziale e fondamentale della fase preparatoria di questo sinodo ha previsto un’intensa raccolta di dati di “ascolto e discernimento” in tutto il mondo. Quale sociologo della religione e della famiglia me ne sono ovviamente interessato. Il frutto di questo processo si trova ora ora riassunto – o meglio, sintetizzato – nel Documento per la Tappa Continentale. Il DTC contiene l’interpretazione dei dati da parte del Vaticano ed è il documento che sarà al centro dei sette incontri “continentali” previsti nei prossimi mesi. Esso funge da precursore dell’instrumentum laboris (o documento di lavoro), sul quale discuteranno i partecipanti al Sinodo dell’ottobre 2023. In altre parole, si tratta di un documento importante. Lo chiamo anche “rapporto di Frascati” in quanto prodotto delle due settimane di lavoro trascorse dai suoi autori in un centro ritiri a Frascati, in Italia, non lontano da Roma, verso la fine di settembre. Lì è stato chiesto a poche decine di interpreti selezionati – per lo più teologi – di sintetizzare “autenticamente” i rapporti nazionali redatti dalle 112 conferenze episcopali partecipanti di tutto il mondo. Si tratta, quindi, di un gruppo influente.
È mia opinione che l’indagine e l’ascolto siano sempre una buona cosa e che la rappresentanza dei laici nel governo della Chiesa meriti di essere in qualche modo sperimentata. Tuttavia, dopo aver letto il DTC sono molto preoccupato in qualità di sociologo per il disordine metodologico che ha caratterizzato l’enorme e ingombrante impresa di raccolta e analisi dei dati di questo Sinodo. Dare un senso ai dati delle interviste e dei focus-group di una singola parrocchia non è un compito semplice. Se vi si aggiungono altri 10.000 dati simili provenienti da tutto il mondo, si ottiene una sfida impossibile. Come possono richiedersi “sintesi” invece che riassunti? Il risultato non è che una raccolta delle opinioni personali di chi ha interpretato le risposte, molto costosa e dispendiosa in termini di tempo, con scarsa attendibilità (e nessun accesso pubblico) ai dati originali.
Sintesi al posto di riassunti
Se davvero si vuole conoscere il sensus fidei, si seleziona un campione di nazioni, diocesi e parrocchie, poi si fa un breve sondaggio universale ben tradotto, si aggiungono alcuni indicatori demografici e si includono delle domande aperte. Se si desidera sapere cosa pensano i cattolici non più praticanti, si fa lo stesso. Riguardo agli esterni? Un processo simile. Ma la comprensione del sensus fidei non è ciò che le disposizioni del Sinodo sembrano aver perseguito. Il Vademecum, utilizzato come guida per la fase di raccolta dei dati, consigliava alle équipe parrocchiali e diocesane di non produrre un riassunto, ma una “sintesi”, descritta come “un atto di discernimento” che non riporti solo le “tendenze comuni”, ma che metta anche “in evidenza i punti che colpiscono, quelli che ispirano un punto di vista originale o aprono un nuovo orizzonte” in modo da prestare “particolare attenzione alle voci di coloro che non vengono spesso ascoltati…”.
Per sicurezza, anche a questi gruppi locali è stato domandato l’impossibile: consegnare una sintesi di 10 pagine di tutto ciò che avevano ascoltato. L’ascolto aveva come guida due gruppi di domande, molte delle quali non facevano nemmeno riferimento a ciò che i “fedeli” dicevano, chiedevano, speravano o lamentavano. Tra i quesiti ve ne sono alcuni più chiaramente rivolti all’esperienza soggettiva degli autori:
– Nel complesso, quali sono stati i frutti che lo Spirito Santo ha portato attraverso questa esperienza?
– Quali passi la diocesi si sente chiamata a compiere per diventare più sinodale?
– Quali immagini culturali possono rappresentare la nostra esperienza di sinodalità?
In effetti, chi prepara le sintesi a ogni livello del processo dispone di una notevole capacità di personalizzazione dei propri sentimenti. Gli autori del Vaticano del DTC hanno dichiarato che il loro non è «il report di un’indagine sociologica». Vero. Lo hanno piuttosto inteso come documento teologico
pur essendo carico del tesoro squisitamente teologico contenuto nel racconto dell’esperienza di ascolto della voce dello Spirito da parte del Popolo di Dio, consentendo di far emergere il suo sensus fidei.
Io non lo vedo. Sembra, invece, un sensus marginis. Quello che il gruppo di Frascati ha sentito, o ha scritto, è una grande quantità di ferite e di sofferenze. Sono la norma all’interno della Chiesa? Il documento è saturo di termini emotivi. Per esempio, la parola “sentire” compare 25 volte, tra cui “se la Chiesa non è sinodale, nessuno può sentirsi pienamente a casa”. (Il termine “dialogo” compare 31 volte, “discernimento” 28 volte, “ascolto” 38 volte, “esperienza” 43 volte, “percorso” 33 volte e varie versioni di “accoglienza” 18 volte). Ma esattamente, di chi sono queste voci?
Personalmente, l’approccio metodologico che ho adottato in The Future of Christian Marriage (Oxford, 2020) è stato piuttosto diverso. Mi sono basato su interviste rivolte a quasi 200 giovani adulti cristiani di sette Paesi, quasi tutti professanti la fede e con una certa partecipazione regolare alla vita della comunità. Quando ho citato gli intervistati, ho sempre offerto indicatori di contesto come l’età, il sesso (identificabile con uno pseudonimo), la tradizione religiosa, lo stato civile e l’occupazione, per esempio: “Pentecostale di 28 anni non sposato di Lagos”, ”farmacista di 27 anni e cattolico maronita di Beirut” o “ingegnere di 27 anni che lavora per una società di marketing a Barcellona”. Nel DTC c’è solo l’indicatore del Paese, che non dice quasi nulla sulla persona che espone il suo punto di vista. Non viene riferito il contesto che si cela dietro la storia di una persona, nulla che indichi se si tratti di giovani o vecchi, uomini o donne, ricchi o poveri, sposati o non sposati, osservanti o meno. Selezionate citazioni, invece, «sono state scelte perché esprimono in modo particolarmente forte, bello o preciso sentimenti che sono espressi più in generale in molte relazioni».
Dal punto di vista empirico, l’indeterminatezza del DTC è sintomatica dell’uso della ricerca azione partecipativa, una sorta di “metodo” poco rigoroso e molto orientato alla promozione del cambiamento sociale. La ricerca azione partecipativa, come la definisce uno studio descrittivo,
cerca di capire e migliorare il mondo cambiandolo. Il suo cuore è l’indagine collettiva e autoriflessiva che ricercatori e partecipanti intraprendono per comprendere e migliorare le pratiche a cui partecipano e le situazioni in cui si trovano.
Questo non è quello che aveva in mente John Henry Newman quando scrisse un trattato sul sensus fidei intitolato Sulla consultazione dei fedeli in materia di dottrina. Santo patrono degli incompresi, Newman fu erroneamente accusato di aver suggerito che i vescovi avrebbero dovuto chiedere il parere dei laici, e sopportò anni di sospetti. Consultare i fedeli, assicurava Newman, significava ascoltare, raccogliere fatti e valutare la condizione dei laici. Non si trattava di cercare una direzione. Si trattava di comprendere la missione.
Dove va a finire il sensus fidei?
A differenza del 1859, nel 2023 è evidente che bisogna dare voce a questi dubbi. Il processo sinodale è andato ben oltre l’accertamento dei fatti. Contrariamente a Newman, ha cercato di oltrepassare i confini. Il DTC è impregnato di suggerimenti per il cambiamento che però, non seguono alcuna strategia e sono poco specifici:
– «Un’attenta e dolorosa riflessione sull’eredità degli abusi ha portato molti gruppi sinodali a chiedere un cambiamento culturale della Chiesa…»
– «…i fondamenti della fede… non cambiano, ma possono essere spostati e piantati in un terreno sempre nuovo, in modo che la tenda possa accompagnare il popolo mentre cammina nella storia»
– «È così che molte sintesi immaginano la Chiesa: una dimora ampia, ma non omogenea, capace di dare riparo a tutti, ma aperta, che lascia entrare e uscire».
I commenti che implicano una revisione degli insegnamenti della Chiesa sono numerosi (ad esempio, sul diaconato femminile, sull’accesso all’Eucaristia, sulle questioni LGBTQ, ecc.) In alternativa, spostare la sede dell’autorità parrebbe essere una soluzione, come ha esortato un commento dell’arcidiocesi di Lussemburgo: «La Chiesa universale deve rimanere garante dell’unità, ma le diocesi possono inculturare la fede a livello locale: la decentralizzazione è necessaria».
E alla fine hanno ricevuto ciò che si meritavano, quando si è concluso anche il comunicato stampa sul lavoro del gruppo di Frascati e una copia del DTC è stata inviata a tutti i vescovi della Chiesa «come atto di restituzione al popolo di Dio».
Susan Pascoe, membro della Commissione Metodologia e addetta alla sintesi a Frascati, si è recata a Bangkok alla fine di ottobre per presentare il DTC alla Conferenza generale dei vescovi asiatici. Lì ha dichiarato che il DTC «è davvero una sorta di censimento della Chiesa nel mondo». No. Un censimento è tale se tutti vi partecipano, come chiarisce anche il Vangelo di Luca. In un censimento, tutti i partecipanti forniscono informazioni, non ci sono bias di auto-selezione, e i risultati sono riassunti e riportati, non “sintetizzati”. (E se non è possibile il censimento, la cosa migliore è utilizzare un campione rappresentativo). Ma dopo molteplici cicli di sintesi, i dati originali del sinodo – ciò che la gente ha effettivamente detto – sono oramai irrecuperabili. La facoltà di determinare il sensus fidei spetta invece agli interpreti di ogni fase, dalla parrocchia fino ad arrivare a Frascati. In altre parole, il DTC ha la stessa probabilità di riferire il sensus fidei autentico, dei bambini di ripetere con successo le frasi nel gioco del “telefono senza fili”.
«Non stiamo inventando nulla di nuovo», afferma il giornalista, biografo del Papa e partecipante all’incontro di Frascati, Austin Ivereigh. Eppure a Frascati è stata aggiunta una “sedia vuota” a ogni gruppo per simboleggiare le “voci mancanti”, dando ulteriore spazio alla soggettività. L’hanno fatto? Chi può dirlo. Se i dati fossero stati raccolti con competenza da un campione rappresentativo di una popolazione di riferimento, allora chi analizza i dati non avrebbe fatto la differenza. Ma se i dati provengono da un campionamento a grappoli multifase e non rappresentativo di partecipanti auto-selezionati da una popolazione di riferimento poco chiara, allora chi analizza i dati e come li interpreta significa tutto.
Citando Pio IX, preoccupato di dover comprendere le opinioni sia del clero che dei laici sulla dottrina dell’Immacolata Concezione prima di elevarla allo status di dogma, Newman ha sottolineato l’unione delle due cose: «La Chiesa che insegna e la Chiesa che ha insegnato». Poco più di 100 anni dopo, la Lumen gentium, la Costituzione dogmatica sulla Chiesa, ha articolato l’autorità del sensus fidei, chiarendo al contempo che i laici non ne fanno parte da soli:
L’intero corpo dei fedeli, unto come è dal Santo, non può sbagliare in materia di fede… quando “dai Vescovi fino all’ultimo dei fedeli laici” mostra un accordo universale in materia di fede e di morale (12).
Il problema della “Chiesa che ha insegnato” è particolarmente urgente. Posso solo ipotizzare quanto pochi siano i fedeli in grado di definire l’Immacolata Concezione, tanto meno di difenderla. Negli Stati Uniti, ad esempio, solo il 31% dei cattolici americani ritiene che “durante la Messa cattolica, il pane e il vino diventino effettivamente il corpo e il sangue di Gesù”. Questa stima allarmante ha spinto la Conferenza episcopale cattolica degli Stati Uniti a raddoppiare gli sforzi per educare i cattolici alla dottrina, ma non a fare pressioni per cambiarla. Così è nato il National Eucharistic Revival. Il problema riguarda anche la teologia morale. Nei dati rappresentativi a livello nazionale raccolti alla fine del 2018, il 20% dei cattolici americani che avevano recitato il rosario nell’ultima settimana era d’accordo sul fatto che “dovrebbe essere giusto per gli adolescenti ‘transizionare’ mediante ormoni o chirurgia se si identificano con un altro genere”. Un altro 26% non sapeva cosa pensare sulla questione. Percentuali simili sono state riscontrate tra i frequentatori settimanali della Messa e per la convinzione che la visione di materiale pornografico sia accettabile. I cattolici non praticanti, invece, mostrano livelli sbalorditivi di credenze e comportamenti non ortodossi in questioni morali come queste. Ad esempio, tra i cattolici che hanno dichiarato di non aver partecipato alla Messa della domenica (o quella vespertina) precedente alla somministrazione del sondaggio, meno del 10% ritiene che convivere prima del matrimonio sia una cattiva idea. Il problema non è con ciò che la “Chiesa insegna”, ma con ciò che la “Chiesa ha insegnato”.
In effetti, all’inizio dell’attuale pontificato, la Commissione Teologica Internazionale ha affermato che “l’autentica partecipazione al sensus fidei” si caratterizza per una serie di comportamenti e disposizioni necessarie. Sebbene la Chiesa sia effettivamente chiamata ai margini, non ne consegue che ivi si trovi anche il sensus fidei.
Proteggere il deposito della fede
Nel complesso, il DTC si presenta come una lista di desideri compilata da riformisti frustrati che hanno spostato l’opzione preferenziale per i poveri verso “i giovani” e gli alienati dal punto di vista culturale (come spiega in dettaglio la sezione 35). Gli autori affermano che la Chiesa impedisce ai fedeli di agire, li vincola con strutture anti-democratiche, mediante l’ostruzionismo del clero e con un evidente disinteresse per gli emarginati. Niente di tutto ciò è vero su larga scala e in maniera consistente. Nulla nell’insegnamento sociale della Chiesa cattolica impedisce ai cattolici impegnati di cercare di realizzare la giustizia sociale e ambientale nelle proprie comunità e nei propri Paesi. Molto è stato fatto – in diverse conferenze episcopali – per arginare il flagello autoinflitto degli abusi sessuali del clero. E così come non ho mai incontrato un sacerdote che nel confessionale mi abbia fatto vivere un’esperienza più simile a “una camera di tortura” che a “un incontro con la misericordia del Signore”, non conosco nemmeno una Chiesa che non sia «inclusiva, aperta e accogliente» (sezione 16).
Nel procedere della fase continentale, non ho idea di come si presenterà l‘instrumentum laboris che ne deriverà, di come procederanno i sinodi dell’ottobre 2023 e 2024 e di quale carattere, contenuto e tono si caratterizzeranno i documenti intermedi e finali. Ma vorrei mettere in guardia dalla speranza che ciò con cui i padri sinodali iniziano il proprio lavoro – il prodotto di dati ingombranti nelle mani di mediatori parziali – sia un terreno stabile per discernere la volontà divina, per non parlare del Bene, del Vero e del Bello. Che sia invece una guida per il campo di missione.
Pregate, quindi – come fece un saggio sacerdote mentre era ingiustamente incarcerato – per «la saggezza e il coraggio dei vescovi, che devono condurci dalle ombre oscure alla luce di Cristo». Possiamo anche essere tutti “in cammino insieme”, ma sono loro la nostra autorità. Essi devono “esaminare ogni cosa, tenere ciò che è buono” (1 Tess 5,21).
Un’evangelizzazione cristiana prudente cerca di condividere ciò che è stato conservato. È, come dice quell’epigramma, un mendicante che mostra a un altro mendicante dov’è il pane. Ciò che danneggia la Chiesa non è il deposito della fede. Quello è un tesoro a cui ogni mendicante anela, compreso questo Sinodo. Ciò che deve adattarsi non è la storia della sua imperitura predilezione per le anime, il riconoscimento della dignità di tutti e la sua chiamata universale alla santità. Ciò che deve cambiare, parafrasando Chesterton, sono io. (Foto: Facebook/Imagoeconomica)
Mark Regnerus – professore di sociologia presso l’Università del Texas ad Austin e presidente dell’Austin Institute for the Study of Family and Culture
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