«Ritengo che in questo momento aprire una terza indagine che segue logiche e forme diverse dall’autorità giudiziaria, sarebbe un’intromissione anche perniciosa per la genuinità delle indagini in corso». Sono queste le parole con cui ieri – nel corso dell’audizione al Senato in vista del voto definitivo sull’istituzione della Commissione bicamerale d’inchiesta sul caso Orlandi e Gregori – il procuratore di Giustizia Vaticano, Alessandro Diddi, ha denunciato un problema molto chiaro. Quale problema?
Quello che «un eccesso di interesse dell’opinione pubblica» possa «costituire un inquinamento della genuinità del lavoro che stiamo svolgendo in collaborazione con la procura di Roma». «Ogni qual volta c’è una indagine, accanto a quella ufficiale c’è quella ufficiosa di organi di stampa», ha detto, «la libertà di stampa funziona in modo straordinario. Il problema è che la stampa fa un altro processo e in questo momento rischieremmo di fare quattro indagini: la mia piccolissima, quella della Procura di Roma, la Commissione parlamentare e poi la quarta commissione del ‘Tribunale del popolo’».
Di fronte tali considerazioni è arrivato, a stretto giro, il commento di Pietro Orlandi, fratello della ragazza scomparsa 40 anni fa a Roma. «Diddi», ha notato, «ha usato dei termini che sinceramente non mi sono piaciuti. Lui oggi rappresentava il Vaticano e ha parlato di ‘intromissione’. Una parola brutta”». Una critica da inquadrarsi alla luce di decenni di indagini rivelatesi deludenti; è dunque comprensibile che la famiglia Orlandi guardi con favore la Commissione bicamerale d’inchiesta, quale occasione ulteriore per provare a far luce sull’enigma iniziato il 22 giugno 1983, con la scomparsa di Emanuela, che all’epoca aveva solo 15 anni. Il fatto è che quanto ha detto Diddi non lo pensano solo lui o il Vaticano.
Prova ne siano le parole che ha usato un altro magistrato, stavolta non del Vaticano, il procuratore di Roma, Francesco Lo Voi, anch’egli dettosi perplesso dall’idea di una Commissione parlamentare, cosa che se da un lato «non può che essere una scelta del Parlamento», dall’altro ha comunque pone solleva un problema che, nelle parole di Lo Voi, è quello di «evitare di offrire palcoscenici». Insomma, sia la Procura di Roma sia il procuratore di Giustizia Vaticano, già al lavoro su questo caso, non desiderano elementi di disturbo, quali ne potrebbero di fatto derivare dalla Commissione parlamentare. E fanno bene: sì, fanno bene.
In primo luogo perché se c’è un dato che, purtroppo, ha già caratterizzato i 40 anni trascorsi dalla scomparsa di Emanuela Orlandi è stata proprio l’eterna sfilata di mitomani e improbabili testimoni e «pentiti» che si sono rivelati utilissimi ad inaugurare decine di piste investigative – quello è indubbio – senza però mai portare alcun elemento concreto che potesse aggiungere un tassello, neppure minuscolo, che facesse fare un piccolo passo avanti alla indagini. Non solo. Un altro dato non riportato da nessun media – e che invece la nostra rivista (qui per abbonarsi), racconta in anteprima – è che ora la magistratura vaticana sta prendendo in esame anche piste mai battute in decenni.
Si tratta di piste, come i lettori del Timone di giugno vedranno, che possono aiutare ad inquadrare il giallo della scomparsa di Emanuela Orlandi in una ottica nuova, forse meno da «romanzo criminale» – di qui magari il pensiero di Diddi per un possibile «inquinamento della genuinità del lavoro che stiamo svolgendo» – ma più concreta e realistica. Certo, per un sistema mediatico e giornalistico che sugli «inconfessabili segreti del Vaticano» ha costruito visibilità, libri, docufilm e carriere è comprensibile che il lavoro discreto della magistratura possa dar fastidio. Ma la ricerca della verità su questo enigma o passa attraverso indagini, già in corso, portate avanti con grande professionalità o rischia di essere vana per sempre. (Foto: Alessandro Diddi, Imagoeconomica)
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