Secondo documenti resi pubblici lunedì 13 settembre dal New York Times, la Federal Election Commission (FEC) ha stabilito che Twitter non ha violato alcuna legge quando, a meno di tre settimane delle elezioni presidenziali del 2020, ha censurato la lunga inchiesta del New York Post sul famigerato laptop di Hunter Biden, figlio del Presidente degli Stati Uniti.
La FEC, Commissione nata per regolare la legislazione dei finanziamenti delle campagne elettorali statunitensi, ha affermato, tra le altre cose, che la censura del New York Post da parte di Twitter è stata «intrapresa per una valida ragione commerciale, non per uno scopo politico». Inutile dire che la “sentenza” della Commissione è stata accolta in queste ore con un certo sdegno dai media conservatori americani. «Ovviamente è stata una decisione intrinsecamente politica bloccare un’inchiesta del genere, in un frangente così prossimo ad un’elezione. Nascondersi dietro l’affermazione che si è trattato di una decisione commerciale è ridicolo», così Tim Murtagh ieri sul Washington Examiner. Che aggiunge: «la decisione ignora una scomoda verità: la sinistra usa Big Tech per fare ciò che il governo federale non può; vale a dire, censurare gli oppositori politici. Basta chiedere al segretario stampa della Casa Bianca Jen Psaki».
Sesso, crack e altre bugie
L’inchiesta del New York Post, datata 14 ottobre 2020, si basava sul contenuto di un pc di Hunter Biden abbandonato in un negozio di riparazioni del Delaware pochi mesi prima («un tesoro di materiale top-secret», così il Daily Mail). Alle foto e ai video che ritraggono Biden jr mentre fa sesso con alcune prostitute e fuma crack, si aggiunge un file dal peso politico indiscutibile. Si tratta di una mail inviata da Vadym Pozharskyi – consigliere di amministrazione di Burisma, società energetica ucraina – ad Hunter Biden, appunto, in cui quest’ultimo viene ringraziato per l’opportunità di incontrare suo padre, nelle mail identificato sempre come «il grande». Andando al di là della vita privata del “giovane” Biden, i commentatori hanno fatto notare come suo padre abbia sempre negato di essere stato coinvolto negli opachi rapporti d’affari dei suoi figli Hunter e James. Il diluvio di rivelazioni uscite dal pc, comprese le mail di Tony Bobulinski, l’ex socio in affari dei fratelli Biden, ha fortemente minato quelle dichiarazioni. Specie se si riflette su un ulteriore particolare: Joe Biden, da vicepresidente, è riuscito a far licenziare un procuratore ucraino che aveva provato ad indagare su Burisma.
Omertà sui Biden
Dopo che l’FBI – che detiene una copia del disco rigido del computer – ha aperto un’indagine su Hunter Biden per riciclaggio di denaro sporco, le sue e-mail avrebbero dovuto sollevare domande fondamentali, nonché richiesto risposte chiare e nette a beneficio dell’opinione pubblica di ogni schieramento. «Su quali prove Joe Biden e i 50 ex funzionari della sicurezza nazionale basano la loro affermazione secondo cui queste accuse hanno origine dall’intelligence russa? L’FBI ha scoperto prove che Joe Biden ha svolto un ruolo più attivo negli affari esteri di suo figlio?», questo si chiedono due legal fellow sul Daily Signal. È interessante notare che mentre si riesce faticosamente a mostrare una probabile prova della corruzione della famiglia Biden, o quantomeno della slealtà del capofamiglia (l’incontro con l’imprenditore ucraino, negato da Joe Biden, è ormai acclarato), tranne pochissime eccezioni (sulle polemiche che seguirono lo scoop, il Wall Street Journal scrisse che «I nostri “giornali di cronaca” diventano qualcos’altro quando cospirano per negare i fatti e nascondere la verità») nessuna testata ha voluto deviare dalla linea, tanto che tutto ha funzionato perfettamente a favore di Joe Biden. In un siffatto contesto di timidezza intellettuale, anche quanto affermato dal noto sondaggista americano John McLaughlin circa il ribaltamento delle elezioni, rimane, paradossalmente, un particolare insignificante. Il 36% degli elettori di Biden non era a conoscenza del contenuto del laptop, e il 4,6% degli elettori di Biden avrebbe cambiato idea se avesse visto quelle foto e se avesse letto la mail dell’ucraino Pozharskyi. L’inevitabile conclusione è che «la FEC ha giustificato una grave interferenza elettorale da parte di una piattaforma di social media», così Murtagh, ricercatore presso il think tank conservatore Heritage Foundation.
Se La barba di Jack Dorsey si accorcia
Seppur con colori e sfumature diverse, la domanda che in queste ore rimbalza sui media americani è la seguente: «Qualcuno pensa per un momento che Twitter avrebbe censurato un rapporto su un laptop di proprietà di Donald Trump Jr.?». Sono in molti a pensare che la decisione della Federal Election Commission contribuirà a trasformare le aziende della Silicon Valley in despoti mediatici onnipotenti, minimamente disposti a rispondere a qualcuno. Un problema però si sta facendo strada. Affermando che «Twitter è probabilmente un’entità di stampa», la FEC (non si comprende quanto consapevolmente) ha di fatto osteggiato lo sfondo giuridico vantaggiosissimo su cui si muovono certe piattaforme. Twitter e Facebook, infatti, godono dei privilegi della Sezione 230 del Communications Decency Act, il quale afferma che «nessun fornitore (o utente) di un servizio informatico interattivo deve essere trattato come editore». Ecco allora che il Comitato di redazione del New York Post, il tabloid che aveva mostrato la “pistola fumante” dei Biden ma che è stato silenziato allora e oggi, reagisce con elegante ironia alle dichiarazioni della FEC trapelate in questi giorni. «C’è motivo di pensare – scrivono i giornalisti – che la barba di Jack Dorsey oggi si stia accorciando. Dichiarando Twitter un editore, la FEC ha sottolineato nero su bianco la contraddizione intrinseca di questi regolamenti. I legislatori possono e devono abrogare la Sezione 230 e costringere le società di social media a seguire le stesse regole degli altri editori. Niente li terrorizzerebbe di più».
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