In Italia l’eutanasia non è ancora diffusa, ma si sta lavorando per un suo radicamento. È quanto traspare da una storia accaduta a Trieste nei mesi scorsi ma raccontata solo ieri dal quotidiano Il Piccolo: quella di Claudio de’ Manzano, un signore di 84 anni che nel dicembre 2018, a metà mese, è stato vittima di un’ischemia. Un dramma che, unitamente alle scarsissime prospettive di ripresa dell’uomo, ha spinto sua figlia Giovanna, in qualità di amministratore, a chiedere per suo conto l’eutanasia, alla luce del fatto che il padre in precedenza aveva dichiarato di non voler vivere in condizioni simili, e che la legge n° 219 sulle Dat varata nel 2017 – all’articolo 3, comma 4 – consente che l’indicazione sulle cure possa essere espressa o rifiutata «anche dall’amministratore di sostegno oppure solo da quest’ultimo, tenendo conto della volontà dell’assistito».
Il problema è che all’ospedale di Cattinara l’interruzione delle cure per quel paziente colpito da ischemia non se la sono sentita di attuarla. Anzi, la figlia si è sentita addirittura chiedere: «Ma lei vuole ammazzare suo padre?». La situazione è così finita in tribunale, con i giudici che si sono espressi, si potrebbe dire in un’ottica bioetica, in modo equidistante – pilatesco, qualcuno potrebbe commentare – nel senso che hanno da un lato negato ai medici dell’ospedale l’obbligo di praticare al loro paziente l’eutanasia omissiva, mentre dall’altro hanno comunque assicurato il diritto dei familiari dell’uomo di trasferirlo altrove. Cosa che è stata prontamente fatta portando de’ Manzano presso la Casa di cura Salus, dove, il 18 febbraio scorso, sedato, è spirato previa sottrazione di alimentazione e idratazione.
Questi i fatti, a cui si potrebbero pure aggiungere altri particolari rilevanti – come per esempio i contatti stabiliti tra la figlia di de’ Manzano, avvocato, e l’associazione radicale Luca Coscioni – se non fosse evidente come questa drammatica vicenda torni utile per una riflessione più ampia, che vada oltre il singolo caso in questione. Una riflessione che, cioè, metta in evidenza anzitutto la situazione nella quale si trova oggi il nostro Paese dove, con l’approvazione delle Dat, non solo si è riconosciuto il presunto diritto di porre fine alla propria esistenza ma lo si è de facto esteso anche ai familiari e agli amministratori. Il che, a ben vedere, è l’esatto contrario dell’autodeterminazione, dal momento che l’autodeterminazione «per procura», per così dire, è un ossimoro, una contraddizione in termini.
Un secondo aspetto emerso da questa storia, quello meno negativo, riguarda la condotta dell’ospedale di Trieste dove non si è accettato, a costo di deludere i familiari e addirittura di finire in tribunale, di eliminare un paziente. Buon segno. Significa che, nonostante il clima non esattamente pro life degli ultimi tempi e le pressioni varie, le nostre strutture sanitarie rimangono sostanzialmente fedeli al mandato ippocratico, che è quello di tutelare prima e sopra ogni cosa la vita e la salute dei pazienti. Merito, viene da dire, non solo del già ricordato e validissimo mandato ippocratico, ma anche di quella cultura cristiana che ancora oggi, piaccia o meno, innerva il nostro Paese.
In terzo luogo, tornando ad aspetti meno rincuoranti, per usare un eufemismo, non si possono non rilevare le continue pressioni che un certo mondo, quello radicale, esercita impegnandosi in ogni singolo caso di cronaca affinché il «diritto di morire» venga a radicarsi nella mentalità italiana. Una mentalità che presenta ancora degli anticorpi, come si è visto, rispetto alle derive di morte. Ma sono anticorpi che, purtroppo, rischiano di iniziare a scarseggiare.
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