Premessa: come Timone sposiamo una linea convintamente garantista. Sul caso Orlandi lo abbiamo già fatto – e non poteva che essere così – con papa Giovanni Paolo II, e lo faremo pure con Mario Meneghuzzi, lo zio della quindicenne scomparsa del 1983, il cui nome viene in queste ore tirato in ballo come possibile attore della vicenda. «Una carognata», secondo Pietro Orlandi. Lo sarà pure, ma ciò non può impedire di mettere a fuoco gli elementi di novità filtrati nelle scorse ore sul grande giallo. Vediamo di che si tratta. Secondo quanto anticipato dal Tg La7 nell’edizione delle 20 di lunedì – e poi ripreso pure dal Corriere della Sera – nelle carte consegnate poche settimane fa dal promotore di giustizia Vaticana, Alessandro Diddi, alla procura di Roma ci sarebbe uno scambio di lettere potenzialmente esplosivo.
UN CARTEGGIO DEL 1983
Si tratta di un carteggio risalente al settembre 1983, che vede l’allora segretario di Stato, cardinale Agostino Casaroli, scrivere un messaggio per posta diplomatica a un sacerdote sudamericano inviato in Colombia, dopo essere stato consigliere spirituale e confessore della famiglia Orlandi. Oggetto della richiesta del cardinale: la richiesta di «conferma» del fatto che la sorella maggiore di Emanuela, Natalina, fosse stata oggetto di attenzioni sessuali da parte dello loro zio, oggi defunto, Mario Meneguzzi, marito di Lucia Orlandi, sorella del padre di Emanuela stessa, Ercole.
Ora, questo carteggio pare rilevante per almeno due motivi; il primo è il fatto che Casaroli chiedesse al sacerdote una «conferma» – dunque qualcosa doveva essere già arrivato sul tavolo del cardinale. E non è poco. La seconda ragione di interesse del carteggio è poi la risposta arrivata dalla Colombia. «Sì, è vero», avrebbe replicato a Casaroli il sacerdote, «Natalina è stata oggetto di attenzioni morbose da parte dello zio, me lo confidò terrorizzata: le era stato intimato di tacere oppure avrebbe perso il lavoro alla Camera dei Deputati dove Meneguzzi, che gestiva il bar, la aveva fatta assumere qualche tempo prima».
PARLA NATALINA ORLANDI
Ieri pomeriggio, alla sede dell’Associazione della Stampa Estera in Italia, si è poi tenuta una conferenza stampa alla presenza di Pietro Orlandi, l’avvocato Laura Sgrò e Natalina Orlandi. Quest’ultima, se da un lato ha smentito ogni debito lavorativo verso lo zio («io ho passato un concorso pubblico»), dall’altro ha ammesso che lo zio stesso – nel 1978, quando aveva 21 anni – le aveva riservato delle «avances verbali […] come un approccio di un ragazzo che va dalla fidanzata, che vuole avvicinare, invitandola spesso, dicendole che la apprezza, dicendole tante cose molto carine […] Mio zio pian piano è tornato indietro sui suoi passi. É stato quei giorni, quel mesetto…».
Certo, tra «attenzioni morbose» e «avances verbali» c’è una differenza. In ogni caso, più di un giornalista in sala – interpretando un pensiero comune – è rimasto abbastanza colpito dalla vicenda di un uomo di 50 anni resosi autore di insistite «avances verbali» nei confronti della nipote di 21. Infatti a Natalina sono state poste varie domande su come giudicasse zio Mario dopo quello che era avvenuto nel 1978: «Come la giudico? Non la giudico bene. Ma poi la cosa è finita lì». Non è però dato sapere se adesso «la cosa» finirà qui per gli inquirenti, che non hanno solo il carteggio del 1983 in mano.
L’IDENTIKIT
Sempre il Corriere, riprendendo il Tg La7, ha infatti fatto notare come il profilo di Mario Meneguzzi sarebbe «compatibile» anche con «l’identikit tracciato dal vigile e dal poliziotto che riferirono di aver visto, la sera della scomparsa, un uomo a colloquio con la 16enne appena uscita dalla scuola di musica vicino al Senato, dove lei si esercitava col flauto». La cosa singolare è che questo identikit sia rimasto inedito per decenni, venendo mostrato per la prima volta solo pochi anni fa. Il primo a far notare una somiglianza tra questo disegno e il parente della ragazza scomparsa era stato, nel 2019, il giornalista Pino Nicotri.
Nicotri ha infatti sottolineato come si trattasse di «un identikit assolutamente inedito del presunto rapitore di Emanuela: ma – sorpresa! – […] somiglia a qualcuno ha delle somiglianze con la buonanima di Mario Meneguzzi, zio di Emanuela e Pietro. É la prima volta in assoluto che quell’identikit viene reso pubblico […] Una delle due firme visibili sul lato basso del foglio dell’identikit – quella a sinistra di chi guarda – è “Sambucoalfredo” la firma cioè del vigile urbano Alfredo Sambuco, quel giorno in servizio all’ingresso di Palazzo Madama, che si usa dire abbia visto Emanuela intrattenersi di fronte al palazzo con un uomo poggiato a una Bmw il pomeriggio della scomparsa».
Alcuni hanno ritenuto che il vigile Sambuco potesse aver visto Enrico “Renatino” De Pedis quel giorno, ma a parte la somiglianza con l’identikit – che con De Pedis è debole -, Lo ha notato sempre Nicotri: «L’identikit tracciato dal vigile nell’85 si adatta semmai più a Mario Meneguzzi che a De Pedis, visto anche che De Pedis non era affatto “molto stempiato sul davanti”, era molto più giovane della persona descritta dal vigile – nell’83 aveva infatti solo 29 anni, ben lontano quindi dai 40-45 – ed era anche più basso: appena 1 metro e 70. Guardando le loro foto si nota come l’identikit tracciato nell’85 più che a De Pedis somigli semmai a zio Mario. Perché quel disegno non è mai stato pubblicizzato pur consegnato ai magistrati? Forse perché la somiglianza a zio Mario creava qualche imbarazzo?».
UNA «PISTA VECCHIA»
Pronta, dinnanzi alle novità emerse, la reazione del difensore di Pietro Orlandi, l’avvocato Laura Sgrò, che, in relazione a quanto reso noto dal tg di La7, ha subito dichiarato: «Di questa vicenda si era già occupata la magistratura italiana nei primi anni Ottanta senza arrivare ad alcun esito. Spero che queste non siano le uniche carte, che non sono affatto una novità, che la procura Vaticana ha inviato alla procura di Roma». Non è finita. A favore dell’estraneità di zio Mario Meneguzzi c’è il fatto che, come da lui stesso dichiarato ai magistrati oltre due anni dopo la scomparsa – nell’ottobre 1985 –, il 22 giugno 1983 era in ferie vicino a Torano.
Nella conferenza stampa di ieri Pietro Orlandi ha poi aggiunto un altro elemento a difesa dello zio: la telefonata che il padre Ercole fece a Meneguzzi la sera stessa della scomparsa di Emanuela, trovandolo dove lo avrebbe dovuto essere. Un dato senza dubbio molto significativo, anche se non si può non notare come da Torano a Roma la distanza non sia oceanica – oggi Google Maps la indica a poco più di un’ora di percorrenza ed è plausibile che anche 40 anni fa i collegamenti stradali fossero efficienti.
Inoltre, sarebbe interessante sapere se il bar della Camera dei Deputati, gestito da Meneguzzi, fosse in servizio quel 22 giugno 1983; in caso negativo, si potrebbe chiudere pure questa possibile pista. Diversamente, almeno un ragionamento teorico (senza con ciò, si badi, trarre conclusione alcuna) potrebbe forse esser fatto, se davvero si vogliono esplorare tutte le ipotesi. In ogni caso, vale la pena fermarsi qui, dato che queste sono valutazioni che spetta solo agli inquirenti continuare a fare. Scriviamo «continuare» perché – è vero – «di questa vicenda si era già occupata la magistratura italiana nei primi anni Ottanta senza arrivare ad alcun esito».
Il fatto è che non risulta che la magistratura avesse indagato molto a lungo nel tempo la pista del giro amical parentale, dato che della stessa, in realtà, si era occupata soprattutto la prima Pm che prese in carico l’indagine su Emanuela Orlandi, Margherita Gerunda, la quale fece pedinare zio Mario Meneguzzi già nei giorni successivi alla scomparsa. Forse Meneguzzi – che fu incaricato dalla famiglia Orlandi di gestire i rapporti telefonici con i presunti rapitori di Emanuela – era stato fatto pedinare perché potesse portare gli inquirenti sulle tracce dei presunti sequestratori della nipote?
Così è stato detto (anche) ieri in conferenza stampa ed è certamente cosa possibile. Sta di fatto che però la Gerunda, colei più di tutti credeva alla pista sessuale, appena tre mesi dopo dovette passare l’inchiesta nelle mani di Domenico Sica, magistrato, come ha notato il Post.it, «esperto di terrorismo internazionale che infatti orientò le indagini verso le ipotesi di un complotto internazionale». Sfortunatamente senza esiti risolutivi.
TORNARE AL 22 GIUGNO 1983
Vedremo allora che sviluppi avranno i fatti, posto che, lo ripetiamo, come Timone restiamo garantisti verso tutti, e riteniamo decisivo – per far luce su questo caso – soffermarsi su un fatto: dopo le ore 19:30 di quel 22 giugno 1983 nessuno hai mai saputo dare una prova che Emanuela Orlandi fosse in vita. Certo, sono stati fatti ascoltare nastri, ritrovare audiocassette, perfino il presunto flauto che aveva la quindicenne scomparsa quel giorno. Ma prove – prove, lo ripetiamo scandendo bene questa parola semplice e impegnativa – no. Questo elemento, unitamente al fatto che la giovane scomparve in pieno centro a Roma, rende dunque difficile sia stata spinta dentro un’auto mentre è più verosimile abbia accettato un passaggio da chi la conosceva; ciò porta a focalizzarsi – come raccontato sul Timone di giugno (qui per abbonarsi alla rivista) – sulle conoscenze che poteva avere la ragazza.
A questo proposito, suonano eloquenti le parole dette non molto tempo prima di morire dall’avvocato Gennaro Egidio, che fu per molto tempo legale della famiglia di Emanuela Orlandi. Nel 2002, Egidio ebbe un colloquio col giornalista Pino Nicotri, riportato nel libro Emanuela Orlandi: la verità (Dalai Editore), che si può definire spiazzante. Scrive infatti Nicotri: «Nell’estate del 2002 l’avvocato Egidio, piuttosto imbarazzato anche perché già gravemente malato, ebbe a dirmi con una chiarezza per lui inusuale: “I motivi della scomparsa della ragazza sono molto più banali di quello che si è fatto credere […] Il rapimento, il sequestro per essere scambiata con Agca? Ma no, la verità è molto più semplice, anzi, ripeto, è banale. Non per questo meno amara”».
Staremo a vedere. Nota a margine: sempre ieri, nella conferenza stampa dell’Associazione della Stampa Estera in Italia, è stato denunciato come nelle scorse ore si sia fatta «macelleria della vita delle persone», dato che si è tirata in ballo una «persona che non si può difendere» in quanto morta. Giusto. Sarebbe però stato bello simili richiami verso una «persona che non si può difendere» in quanto morta fossero valsi anche nei confronti di Giovanni Paolo II, che nei mesi scorsi è stato dipinto come uno che le ragazzine «pure insieme se le portava a letto». Un’occasione malamente perduta. (Foto: Imagoeconomica/La7)
*Nell’articolo ci sono due imprecisioni: a far pedinare, secondo l’ex agente del Sisde Giulio Gangi, da un’auto civetta Mario Meneguzzi non fu Margherita Gerunda. Fu invece Domenico Sica che le era subentrato non dopo tre mesi, come si afferma sopra, ma dopo poco più di un mese di indagini, il 25 luglio 1983.
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