«Molte donne sono ancora in un modello mediterraneo, che siano italiane, marocchine o turche di origine… È un modello di famiglia in cui l’uomo lavora e la donna resta a casa per occuparsi dei figli», a sostenerlo è stato il ministro del Lavoro belga, Bernard Clerfayt durante un’intervista alla tv Ln24. Stando a questa dichiarazione il tasso d’occupazione femminile a Bruxelles sarebbe troppo basso rispetto al resto del Belgio a causa del «modello di famiglia mediterranea» radicato nella capitale. Clerfayt milita nel Fronte democratico francofono ed è dal 2001 il sindaco di Schaerbeek, un comune di Bruxelles ad altissima concentrazione di migranti, in gran parte di provenienza turca e marocchina.
«Credo che voi incoraggerete a cambiare quella mentalità», risponde il giornalista Martin Buxant al Ministro, «Naturalmente.Prima di tutto perché la coppia si trova meglio se lavorano entrambi e l’emancipazione delle donne fa guadagnare loro diritti. Hanno il diritto di avere un lavoro e l’emancipazione attraverso il lavoro». Lasciando per un attimo da parte la sua risposta, credo sia prima importante approfondire punto per punto e rispondere con una certa dignità – quel tipo di dignità che nessun lavoro o diritto potrà mai conferire a noi donne, perché risiede più in profondità. Ma andiamo con ordine.
Innanzitutto il Ministro ha messo nello stesso calderone «donne italiane, marocchine o turche di origine», e, per quanto questo non leda la posizione di alcuna, sarebbe necessario chiarire che la cultura di appartenenza, la lingua, la fede religiosa, l’economia e le tradizioni sono eterogenee. E per quanto si voglia promuovere un multiculturalismo sfrenato, ci sono delle differenze evidenti da discernere e preservare per combattere le stesse discriminazioni contro cui Clerfayt dice di militare in prima linea.
In alcuni Paesi si dovrebbe parlare di diritto di scelta della donna o all’istruzione, prima ancora che di accesso al lavoro. Non si possono mettere sullo stesso piano Paesi in cui è la donna a scegliere se accudire i figli a tempo pieno o meno, con altri dove è la religione a determinare dove debba arrivare il suo potere decisionale. Senza considerare che con queste dichiarazioni il Ministro abbia espresso in estrema sintesi il classico stereotipo dei Paesi nel nord su quelli del sud – attirandosi non poche critiche perfino dagli stessi concittadini a suon di tweet «Smettetela di incolpare la società per le scelte di vita personali», «Conosco donne mediterranee di grande talento» e potrei continuare.
In realtà nulla di nuovo sotto al sole. Il Ministro ha semplicemente puntato il dito contro il capro espiatorio più in voga per nascondere una mancanza di infrastrutture pubbliche o le discriminazioni nelle assunzioni. Sto parlando del famigerato “modello tradizionale di famiglia” che ricorda essenzialmente quello cattolico – perlomeno nell’ambito italiano. E se vogliamo alzare un po’ il tono del discorso sarebbe bello ripercorrere l’insegnamento del Magistero sul connubio lavoro-famiglia.
La dottrina sociale della Chiesa si esprime a sostegno delle donne affinché non siano obbligate a scegliere tra lavoro e famiglia: «La vera promozione della donna esige che il lavoro sia strutturato in tal modo che essa non debba pagare la sua promozione con l’abbandono della propria specificità e a danno della famiglia, nella quale ha come madre un ruolo insostituibile» (LE, n. 19). Perché eccolo svelato il non detto: Qualcuno ha chiesto a quelle madri che hanno scelto di stare a casa se sono felici? Oppure a qualche madre che lavora a orari incompatibili con la gestione famigliare – spesso in condizioni di bassa qualità e con paghe irrisorie (tema affrontato sul Timone di marzo: qui per abbonarsi) – se preferirebbe restare a casa, magari con qualche aumento al salario del proprio uomo?
La risposta è no. Perché l’importante è far fuori il modello di madre che cresce i figli o che si vuole realizzare dal punto di vista lavorativo con dei figli e non “nonostante” loro. Caro Ministro, proverò io a rispondere con quella dignità a cui accennavo poc’anzi. Nella nostra società, quella “mediterranea, retrograda, fondata sul patriarcato”, spiccano donne che si destreggiano con grande abilità tra impegni lavorativi, sociali e famigliari, mettendoci in mezzo – anzi, fondandosi su – preghiera e dedizione al proprio matrimonio. Non mi sento nella posizione di poter fare da portavoce alla categoria, ma nel mio piccolo potrei sentirmi offesa dalle sue dichiarazioni.
Perché posso permettermi di lavorare, grazie al sostegno del nido, alle condizioni agevolate della mia occupazione, all’impegno lavorativo e alla collaborazione domestica del marito – e non in ultimo, grazie a Dio. E se ho ben presente quanto la strada sia in salita quando si sceglie di vivere la famiglia come luogo di trasmissione della vita, di lavorare e di far tornare i conti in tasca, so anche che prendo forza da quel modello culturale e religioso da lei tanto bistrattato.
Mi permetta poi di ricordarle un punto che le è totalmente sfuggito: l’educazione dei figli. Che oggi sono bambini, ma domani saranno cittadini responsabili civilmente. Faccia lo sforzo di pensare a quanto sia collegata la presenza costante e amorevole di una famiglia armoniosa con la crescita e lo sviluppo della persona. E tornando al Magistero le cito questo passo: «L’uomo riceve le prime e determinanti nozioni intorno alla verità e al bene, apprende che cosa vuol dire amare ed essere amati e, quindi, che cosa vuol dire in concreto essere una persona» (CA, n. 39). Forse allora vale la pena dedicarcisi anche a tempo pieno se lo si vuole, che ne dice?
E, mi scusi se mi permetto, si tenga alla larga dal benessere delle coppie. Faccia il suo lavoro, con politiche lavorative davvero inclusive – anche per chi di figli ne ha più di due o si presenta ai colloqui con il desiderio di metterli al mondo – che noi pensiamo al nostro. Su quale base dichiara che se i coniugi lavorano entrambi «la coppia si trova meglio»? Fosse così facile avremmo famiglie unite, felici e relazioni durevoli. Ma si guardi intorno. Il Concilio definisce la coscienza come «il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità» (GS, n. 16), allora lasci a ognuno la libertà di conoscere dove risiedano quel benessere e quella felicità che tutti ricerchiamo. Che magari poi si scopre consistere nel salutare il marito al rientro dal lavoro con la cena pronta sul tavolo. Le sembra possibile? (Fonte foto: Facebook)
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