Questo articolo è apparso sulla rivista Cardinalis, per gentile concessione del direttore pubblichiamo di seguito l’intervista che il cardinale Camillo Ruini ha concesso a Diane Montagna. La rivista Cardinalis (dal nome in latino), diretta da Jérôme Christol, è curata da una squadra internazionale di vaticanisti e viene inviata a tutti i Cardinali di Santa Romana Chiesa ed esce in diverse lingue.
di Diane Montagna
Qual è stato il suo percorso verso il sacerdozio?
«E’ stato un percorso strano, soprattutto per la sua rapidità. Fino all’età di 17 anni non avevo mai pensato di diventare sacerdote e invece un anno dopo la decisione era presa e entravo in seminario, nonostante la contrarietà e il dolore dei miei genitori. Fin dalla fanciullezza avevo una fede robusta e l’abitudine di pregare, ma per il resto la mia pratica religiosa si limitava alla Messa domenicale. Poi alcune circostanze esterne hanno favorito la mia partecipazione alle attività anche pubbliche della mia parrocchia e così è nata la mia scelta».
Come ha vissuto il Concilio Vaticano II? Può spiegare il desiderio di Benedetto XVI per l’ermeneutica della continuità?
«Ho vissuto il Concilio con gioia ed entusiasmo. Ero un giovane sacerdote che insegnava al seminario di Reggio Emilia e che, sempre a Reggio Emilia, si occupava dei laureati cattolici. Con loro ho organizzato delle conferenze alle quali invitavamo come relatori alcuni protagonisti del Concilio: venivano ad ascoltarli tante persone. Dopo la fine del Concilio il clima è rapidamente cambiato: anche all’interno della Chiesa è esplosa la contestazione, dalla quale ho subito preso le distanze. L’ermeneutica della continuità, o meglio del rinnovamento nella continuità, proposta da Benedetto XVI esprime nel modo migliore quelle istanze che tanti come me hanno sentito e vissuto fin da quegli anni: accogliere pienamente la grande novità del Concilio nella continuità della fede e della Chiesa».
Lei è stato per molti anni presidente della Conferenza Episcopale Italiana. Secondo Lei, quali dovrebbero essere il ruolo e i limiti delle conferenze episcopali nella Chiesa?
«Le conferenze episcopali svolgono una funzione della più grande importanza. Permettono infatti alla Chiesa di avere una voce e un ruolo a livello nazionale, oltre a facilitare e intensificare i legami tra i vescovi di quella nazione. Non devono invece essere di ostacolo all’azione dei singoli vescovi e tanto meno mettere in pericolo l’unità della Chiesa universale».
La dichiarazione Dominus Iesus, pubblicata nel 2000 sotto l’autorità di Papa San Giovanni Paolo II, riafferma che Gesù Cristo è l’unica fonte di salvezza per l’umanità. Essa è spesso criticata. Può darci la sua interpretazione di questo documento?
«Si tratta di un documento fondamentale che riafferma nel nostro tempo, caratterizzato dal relativismo, l’affermazione centrale e decisiva del Nuovo Testamento che Gesù Cristo è il nostro unico salvatore (Atti 4,12). Questo la Chiesa ha sempre creduto, questa è l’origine dello slancio missionario verso tutti i popoli e tutte le culture. Unita a Cristo come suo corpo, la Chiesa è sacramento di salvezza per tutto il genere umano».
Qual è il rischio dell’assenza di Dio nel mondo occidentale?
«“Con Dio o senza Dio cambia tutto” era il titolo di un convegno che organizzammo a Roma una dozzina di anni fa. Senza Dio l’uomo perde il suo punto di riferimento, la sua specificità e dignità inviolabile. Infatti se Dio non c’è l’uomo si riduce inevitabilmente a una particella della natura, che con la morte finisce per sempre. La crisi che corrode l’Occidente dal di dentro, nonostante il suo progresso economico e tecnologico, ha qui la sua radice. Ritrovare la fede in Dio è ritrovare la strada per il nostro futuro».
Quali sono i punti su cui la Chiesa dovrebbe insistere, secondo lei?
«Il punto primo e più importante è quello che ho appena detto e su cui Benedetto XVI ha molto insistito: la fede e la fiducia in Dio, il primato di Dio nella nostra vita. Il secondo punto, inseparabile dal primo, è la fede in Gesù Cristo Figlio di Dio e nostro unico salvatore. Il terzo è l’uomo, creato a immagine di Dio e divenuto in Cristo suo figlio adottivo, l’uomo chiamato alla vita eterna, l’uomo che già oggi cerca di vivere da figlio di Dio».
La morale difesa dalla Chiesa cattolica è sempre più sotto attacco, soprattutto dopo la pubblicazione dell’Humanae Vitae di Paolo VI. Alcune figure, anche all’interno della Chiesa, vogliono cambiarla. Qual è la sua posizione?
«E’ inevitabile che l’etica cristiana sia contrastata, in una società in larga misura scristianizzata. C’è inoltre, da sempre, una osmosi tra la Chiesa e la società in cui la Chiesa vive. Non sorprende quindi che la contestazione dell’etica cristiana trovi spazi anche all’interno della Chiesa. Guardando però sia alla storia sia all’attualità vediamo che la fede e la vita cristiana fioriscono quando mantengono il loro profilo e agiscono come fermento che cambia il mondo, diventano invece irrilevanti quando rinunciano al loro profilo per adattarsi ai tempi. Non si tratta di essere immobili e di rifiutare quegli sviluppi che sono fisiologici e necessari, ma di crescere e svilupparsi in piena coerenza con le proprie origini».
Qual è il ruolo primario di un cardinale secondo Lei?
«I cardinali sono al servizio della Chiesa e in particolare del Papa e della sua missione. Devono spendersi fino in fondo per questo, con piena fedeltà e totale dedizione. Hanno quindi un ruolo importante, per adempiere al quale c’è bisogno della preghiera e della grazia del Signore».
Di tutti i Papi che Lei ha servito, quale l’ha colpita di più e perché?
«In concreto, cioè con un rapporto diretto e personale, ho servito due Papi: Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Durante i pontificati dei Papi precedenti, fino a Giovanni Paolo I, non ero ancora vescovo, vivevo e operavo a Reggio Emilia. Quando è diventato Papa Francesco avevo già 82 anni e quindi non avevo più ruoli attivi. Con Benedetto XVI ho un rapporto personale profondo, che anche oggi è ben vivo, ma il Papa della mia vita è stato senza dubbio Giovanni Paolo II. Ho avuto la grazia di servirlo per vent’anni, operando a suo stretto contatto. Di lui tante cose mi hanno colpito, a cominciare dalla sua totale fiducia nel Signore, che lo portava ad affrontare con serenità e senza paura le più grandi prove. Adesso è il Santo a cui ogni giorno mi affido nella preghiera».
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