Durante la rassegna stampa di questa mattina mi sono imbattuto in una singolare notizia: una signora belga cattolica di 62 anni, tale Veer Dusachoit, impegnata attivamente in parrocchia, ha trascinato in un tribunale civile il cardinal Jozef de Kesel e l’attuale titolare della diocesi, monsignor Luc Terlinden, perché avrebbe voluto completare il percorso di studi previsto per i diaconi, ma per ben due volte non le è stato concesso. Ha vinto la causa perché discriminata in quanto donna, mentre i due alti prelati sono stati condannati con la pena a pagarle 1.500 euro ciascuno come risarcimento per i danni subiti.
Rileggo la notizia e rimango basito. Non voglio entrare qui nel merito della sentenza, che non solo odora (male) di politica ingerenza (quando si parla sempre di ingerenza della Chiesa, ma vabbè!), ma secondo cui pare buttata alle ortiche, se non calpestata, la libertà religiosa. Un’istituzione non statale, infatti, potrà darsi le regole che vuole se non sono contrarie al senso comune? Se uno, per esempio, non possiede il diploma di maturità non può accedere all’università e questo non perché sia discriminato, ma perché ci sono delle norme che valgono per tutti. Di più, la succitata signora aveva replicato al diniego diocesano impostole che voleva soltanto seguire i corsi, mica diventare diaconessa (anche perché al momento – speriamo eterno – non è possibile). Di là dalla questione in sé, che per chi è vagamente normale risulta assurda da qualsiasi lato la si prenda, lo sconcerto che mi ha afferrato è di natura spirituale.
Mi spiego. Nel pezzo giornalistico si sottolinea che la signora di cui sopra avrebbe voluto seguire le lezioni teologiche per migliorare il suo servizio alla Chiesa. Rimango esterrefatto, ma non più di tanto, soggiornando anch’io in parrocchia. Per vivere meglio il proprio servizio ecclesiale si può denunciare il proprio vescovo, ossia colui che dà il mandato perché il siffatto ministero all’interno delle mura parrocchiali si possa concretizzare? La questione è di fondamentale importanza e mi ha fatto riflettere su due parole tipicamente cristiane: la prima – inflazionata – è “servizio”, la seconda – ormai nell’oblio di un cattolicesimo che fu – è “obbedienza”. Nel nostro contesto, marcato da un soggettivismo sfrenato, l’“obbedienza” è cosa dimenticata, tanto è vero che i vescovi rischiano di non intervenire davanti alle storture moderne per paura di andare sui giornali, com’è successo in questo caso.
Al contrario, sovente s’impuntano su cose assolutamente di nessuna valenza cattolica, dove riescono a tirare fuori un autoritarismo eccezionale, sebbene privo di vera autorità. Scrivevo con umorismo nel mio Dalle lettere di don Augusto. Come rimanere cattolici nonostante tutto che questa situazione anormale per la cattolicità l’hanno in certa misura incentivata anche i Pastori per quieto vivere, per disinteresse, per non avere noie, per una tolleranza mal compresa, o non lo so. Si può cioè sfornare qualsiasi tipo di eresia, si può dileggiare con comportamenti non corretti l’Eucaristia, si possono proporre le più strampalate iniziative pastorali senza che alcun presule abbia da dire alcunché. Se, invece, si difende la verità Rivelata, che essendo rivelata è sotto gli occhi di tutti (quella per intenderci che insegna il Catechismo), se si prende posizione verso chi nella comunità spadroneggia in modo poco consono, se ci si rifiuta a piegarsi a logiche mondane, non è detto che qualche alto prelato non vi tiri le orecchie.
Tornano a noi, il fulcro di tutta la faccenda è forse non aver spiritualmente afferrato il significato dei due termini in questione: “servizio” e “obbedienza”. Mettersi a servizio vuol dire divenire – nel senso dato dal Vangelo – servi inutili che hanno fatto quello che dovevano fare. Il servizio non si riduce nell’essere a capo di qualcosa o di qualcuno, ma essere servi (non schiavi) inutili (non indispensabili), dove il vero servizio ascetico (che consente, appunto, di elevarsi) è accettare quello che ci è chiesto di buono, anche qualora non si vorrebbe svolgere (perché non congeniale o perché uno vorrebbe fare semplicemente altro). Nella mortificazione dell’io – cosa che non piace più – e in uno stile davvero cristiano, il servizio ecclesiale può permettere di migliorare e affinarsi, può portare frutti, può essere contagioso (non è strano che ci sia gente che da decenni ha lo stesso incarico perché non si trova nessuno disposto ad aiutarlo o a sostituirlo?).
Per vivere il servizio è, però, necessaria l’“obbedienza”, il che si può definire in soldoni: “lasciare decidere a chi ha la responsabilità (sacramentale)”. Qualora la scelta dei superiori sia sbagliata si deve farlo presente, se fosse grave bisogna prenderne le distanze, ma mai contrapporsi come se la religione fosse lo scontro tra tifoserie accecate dall’amore smodato per la propria squadra. È ingenuo, poi, non tenere conto che laddove c’è l’uomo c’è un impasto di bene e male (dovuto al peccato originale): su questa terra, in nessuna persona si troverà quella perfezione di cui parla il Vangelo. Per questo, l’obbedienza ci riporta all’umiltà: ciò che mi viene domandato può essere anche solo pregare e intercedere per la parrocchia (che comunque è l’“attività” più importante di tutte, benché spesso ce ne si dimentichi!). Prima di fare, bisogna essere.
Non senza ironia Giacomo Biffi ha lasciato scritto che nel nostro contesto «ci si compiace di parlare di “comunità”, quasi per nostalgia, adesso che sociologicamente prevale l’individualismo e il disimpegno. A richiamarsi assiduamente alla “povertà” e a decantarla con entusiasmo sono proprio i cristiani benestanti e gli uomini di Chiesa di estrazione borghese, che non hanno mai avuto modo di farne personalmente qualche esperienza: ai veri poveri invece di solito non viene neppure in mente di esaltare la loro condizione e di farne un ideale di vita. I parroci sanno che non hanno fatto tanta fatica a trovare qualcuno che li aiutasse a riordinare il cortile e gli ambienti della canonica dopo una festa, come da quando il popolo di Dio nei discorsi ecclesiali è posto ripetutamente in stato di servizio o, che è lo stesso, di “ministero”».
“Servire”, allora, significa imitare Gesù (assomigliargli) e “obbedire” vuol dire ascoltare il suo insegnamento e quello della Chiesa (che non coincide per forza con l’esternazione – magari virgolettata – di un Papa o del proprio parroco o, ancora, del teologo del momento). Ancora il Cardinale che fu bolognese di adozione mi avvince e convince con un altro pensiero: «Non abbiamo bisogno di annunciatori della parola che cambino il Vangelo con la scusa di adattarlo al nostro tempo, ma di annunciatori che tentino ogni giorno, magari riuscendoci poco, di cambiare se stessi per essere ogni giorno più conformi al Vangelo che non cambia». Oggi – 11 luglio – si ricorda l’anniversario della morte di Giacomo Biffi (1928-2015), proprio nel giorno liturgico in cui la Chiesa festeggia san Benedetto, il quale – guarda caso – scriveva nella sua Regola: «Nessuno cerchi il proprio utile, ma piuttosto quello degli altri, amino i fratelli con puro affetto, temano Dio, vogliano bene al proprio abate con sincera e umile carità. Nulla assolutamente anteponiamo a Cristo e così egli, in compenso, ci condurrà tutti alla vita eterna». A buon intenditor poche parole. (Foto Ansa)
Potrebbe interessarti anche