Nato nel 1946 a Mandura, Italia, il Cardinale Filoni, Gran Maestro dell’Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme, è stato per anni Nunzio in Iraq dove ha affrontato la guerra rimanendo al fianco della popolazione. Durante la battaglia di Baghdad del 2003, infatti, decise di non lasciare la sua nunziatura e questo gli è valso il soprannome di “Nunzio Coraggio”. Questa sua decisione gli è valsa anche la speciale fiducia di Papa Francesco, che lo ha invitato a partecipare il suo viaggio apostolico del 5-8 marzo in Iraq. Il National Catholic Register lo ha contattato per conoscere il suo punto di vista sulle sfide che attendono Papa Francesco durante il suo viaggio in Iraq. Riportiamo di seguito una nostra traduzione di alcune risposte del cardinale.
Lei è stato nunzio apostolico in Iraq durante i bombardamenti Usa del 2003. Come ha vissuto questo tragico momento storico, che ha contribuito al massiccio esodo dei cristiani nel Paese?
«…Papa Giovanni Paolo II mi nominò nunzio apostolico in Iraq due anni prima che scoppiasse la guerra, il Papa mi ha inviato con l’espressa missione di essere “un messaggero di pace e di speranza” per le comunità cristiane di questa terra. Ho sempre portato queste parole nel cuore, come un buon viatico. I bombardamenti sono iniziati il 19 marzo 2003, nella festa liturgica di San Giuseppe. Pensavo che la pace fosse stata ferita a morte, ma la speranza era ancora viva; quindi, rimanendo in Iraq con la sua gente e condividendo le loro ansie, avrei potuto essere un messaggero di speranza. Certo, c’era una dimensione traumatica, perché le bombe e i missili potevano colpirci in qualsiasi momento, ma questo ci ha permesso di condividere la vita dei poveri. Una delle iniziative che ho promosso è stata quella di dire: “Nessuno dovrebbe lasciare il Paese. Dobbiamo tutti restare qui con la nostra gente e aprire le nostre chiese”. E così, tutte le chiese rimanevano aperte, anche di notte, e la gente veniva».Cosa si aspetta da questo viaggio [del Papa, ndr]?
«Questo viaggio è un desiderio che il Papa mi ha già espresso quando sono tornato dall’Iraq nel 2014, e di nuovo alla fine del mio secondo viaggio lì per la Settimana Santa nel 2015. Questo viaggio non riguarda solo il Papa che fa un bel gesto – tutta la Chiesa sta andando con lui in queste terre. È una visita ecclesiale e pastorale, a sostegno dei cristiani e delle minoranze, uno stimolo a rafforzare il dialogo tra cristiani e musulmani. E personalmente aggiungerei che è anche un’occasione per incoraggiare il dialogo tra gli stessi musulmani».Come può la visita del Papa incoraggiare un tale ecumenismo intra-musulmano, cioè tra sciiti e sunniti?
«Questo è un punto di vista personale. Avendo vissuto per molti anni in Iran, Iraq e Giordania, ho avuto la percezione che molti problemi, anche internazionali, sorgessero dalla profonda spaccatura religiosa che esiste nell’Islam. Fondamentalmente è sempre stato così. Ciò ha dato origine a innumerevoli guerre e conflitti di natura politico-religiosa. Se non superiamo il concetto di vendetta, quello di occhio per occhio e dente per dente, se non entriamo in una logica del dialogo, al di là delle opposizioni, allora gli scontri e le guerre continueranno. Nella logica della pace non ci sono confini. Come cristiani, siamo favorevoli al dialogo; la diversità non dovrebbe portare all’opposizione. Dopo che il Papa ha firmato il “Documento sulla fratellanza umana” ad Abu Dhabi, questi contatti si sono evoluti in tanti modi e forme, e penso che anche questo possa favorire il dialogo e la comprensione reciproca, a beneficio di tutti».Si parla molto della necessità di aiutare i cristiani a rimanere nelle loro terre, o di tornare per coloro che sono fuggiti. Ma quali potrebbero essere le soluzioni concrete per raggiungere questo obiettivo in un paese la cui costituzione è (dal 2005) basata sul Corano?
«Durante le mie ultime due visite lì, ho sentito parole forti dalle autorità locali – specialmente nel nord, dove c’è la più grande comunità cristiana – che hanno detto che i cristiani avevano il diritto nativo di rimanere nelle loro terre. Quindi non è semplicemente una concessione, né una tolleranza, ma un diritto nativo. Non è una questione di rivendicazione, ma si tratta di dire: se basiamo la convivenza sui diritti umani, allora abbiamo tutti gli stessi diritti. Il Medio Oriente appartiene a tutti a causa della sua antica cultura e civiltà. Ne siamo debitori. Inoltre, dal punto di vista cristiano, qui si è svolta la vita di Gesù, quella dei profeti, della Chiesa primitiva che ha avuto per secoli grande vitalità. La presenza cristiana, anche nelle sue multiformi espressioni, è importante. La logica di far sparire queste comunità è come far sparire la vita e preparare un deserto, un ambiente impoverito. In ogni caso, a tutti spetta il compito di favorire la presenza cristiana in quelle terre, ma spetta soprattutto ai cristiani originari non comportarsi come persone che rincorrono altri miti e il cosiddetto “benessere” e avere amore e consapevolezza del proprio ruolo e della propria missione. Certamente, la presenza cristiana non è favorita se si impone a tutti una visione della vita e della legge, o costituzioni basate sui principi islamici o sulla sharia. Il denominatore comune è la legge che favorisce e rispetta i diritti umani, senza discriminazioni, nonché lo sviluppo di una visione di pace».
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