Dopo una lunga opera di promozione in ambito cattolico, il nome di Etty Hillesum è riuscito ad entrare anche nei testi per le meditazioni della solenne Via Crucis che si è tenuta al Colosseo lo scorso Venerdì Santo, scritte dalla biblista francese Anne-Marie Pelletier (nela foto a destra). Ma chi era e cosa ha detto veramente la giovane ebrea olandese morta ad Auschwitz nel 1943?
Di seguito, la voce a lei dedicata nel Dizionario elementare del pensiero pericoloso pubblicato da IdA/Il Timone.
ETTY HILLESUM
Esther Hillesum, detta Etty (1914-1943), nasce a Middelburg (Olanda), in una famiglia della borghesia intellettuale ebraica. Si laurea in giurisprudenza all’Università di Amsterdam e coltiva studi umanistici, di lingua e letteratura russa. All’inizio della guerra si interessa della psicologia analitica junghiana, grazie all’incontro con lo “psicochirologo” Julius Spier (1887-1942) di cui diviene paziente, quindi amante e segretaria. Tra il 1941 e il 1942 scrive un diario – undici quaderni ricoperti da una scrittura minuta, con il resoconto della sua vita quotidiana e dei movimenti della sua anima – probabilmente su suggerimento dello stesso Spier. Il documento sarà pubblicato solo nel 1981 in Olanda dall’editore De Haan, riscuotendo un grande interesse di pubblico e di critica, così come sarà per le sue Lettere. Nel settembre 1943, per ordine speciale del comandante delle SS nei Paesi Bassi, la famiglia Hillesum viene deportata in Polonia. Il 30 novembre Etty, che aveva rinunciato a diverse possibilità di fuga per seguire il destino del popolo ebraico, muore ad Auschwitz.
L’eclettismo di questa autrice, congiunto alle modalità tragiche con cui si è interrotta la sua giovane vita, le ha permesso di riscuotere un’enorme popolarità specialmente nell’ambito della cultura cattolica. L’anelito spirituale che emerge dai suoi scritti personali ha ispirato una copiosa bibliografia che lascia disorientati gli esegeti più rigorosi, per la facilità con cui l’intellighenzia cristiana europea ha messo in atto una sorta di canonizzazione informale. Un esito del genere era stato già rilevato dal primo curatore del Diario, Jan Geurt Gaarlandt. L’anomalia è stata di recente messa in luce da una delle massime studiose della Hillesum, l’olandese Ria van den Brandt, che ha accusato implicitamente gli studiosi cattolici di ostacolare un adeguato approccio critico all’opera dell’Autrice.
Ha detto
● Da diversi passaggi dei Diari (trad. it., Adelphi, Milano 2012) emerge un’idea di redenzione che non può prescindere dall’aspetto catastrofico e che, contrariamente a qualsiasi apocalisse cristiana, ha come elemento caratteristico l’immersione nell’oscurità del male e il riscatto delle “scintille divine” imprigionate in noi che l’autrice definisce di volta in volta come «un piccolo pezzo di Dio in noi stessi» o «la casa di Dio in noi» (Diari, p. 713).
● Sempre nei Diari, l’autrice alterna momenti di esaltazione mistica a crude riflessioni sul valore della sua fede: «Io saltello qua e là con Dio come se fosse una cosa di nulla, ma dovrei vivere conformemente. Finora è stata soprattutto Spielerei», ovvero uno scherzo (ibid., p. 761). In particolare, nel primo dei quaderni che costituiscono le sue memorie personali, la Hillesum trova modo di giustificare un aborto con queste parole: «La vita è sostanzialmente un gran calvario e […] tutti gli esseri umani sono infelici. […] Ti attaccherò con acqua calda e con orribili strumenti, ti combatterò con pazienza e costanza fintanto che non ti sarai di nuovo dissolto nel nulla, e allora sentirò di aver compiuto un’azione buona e responsabile. […] Ti sbarrerò l’ingresso a questa vita, e non dovrai lamentartene». Mentre, in chiusura del Diario (martedì 13 ottobre 1942), con un’immagine “eucaristica” (in realtà ispirata al poeta Rainer Maria Rilke [1875-1926]) legittima la propria condotta libertina: «Ho spezzato il mio corpo come se fosse pane e l’ho distribuito agli uomini. Perché no? Erano così affamati, e da tanto tempo» (ibid., p. 797).
● Nelle Lettere 1941-1943 (trad. it., Adelphi, Milano 2013), scritte dal campo di concentramento di Westerbork, il legame tra catastrofe e redenzione si rende ancora più evidente, anche a causa delle condizioni estreme in cui l’Autrice si trova a vivere. In un messaggio del novembre 1942, Hillesum scrive: «Spesso penso che dovremmo caricarci il nostro zaino sulle spalle e salire su un treno di deportati» (p. 40). In altre due lettere (pubblicate dalla resistenza olandese nel 1943), afferma che «se non sapremo offrire al mondo impoverito del dopoguerra nient’altro che i nostri corpi salvati a ogni costo – e non un nuovo senso delle cose, attinto dai pozzi più profondi della nostra miseria e disperazione – allora non basterà» (p. 57).
Risposte
● Il concetto di redenzione che ispira Etty Hillesum va letto alla luce degli studi di Gershom Scholem (1897-1952) sul messianismo ebraico, attraverso il quale la disperazione nichilistica può assumere finalmente un carattere religioso e adempiere alla “missione”, ovvero realizzare la “riparazione” (tiqqun) della creazione. Questa “teoria della catastrofe” sembra essere la vera forma in cui Etty Hillesum pensa la redenzione, in correlazione a una precoce infatuazione per il pensiero dello psicanalista Carl Gustav Jung (1875-1961) e un’atipica “posa” cristiana («Due mani unite e un ginocchio piegato») che la scrittrice ha dovuto «imparare a fatica». Da tale prospettiva, è solo sperando che la catastrofe abbia un valore redentivo che si può «stare in mezzo ai cosiddetti “orrori” e dire ugualmente che la vita è bella» (Diari, cit., p. 791), fare di questo «destino di massa» una fede che mascheri l’amor fati e che permetta di sopravvivere se non alla catastrofe, almeno al nichilismo.
● La retorica religiosa di Etty Hillesum spesso svolge il ruolo di “velo” sulla prospettiva nichilistica da cui affronta il proprio destino individuale e quello collettivo dell’ebraismo europeo. Da tale atteggiamento deriva anche un’indifferenza nei confronti del peccato, l’abbandonarsi al quale non compromette la “redenzione”, così come è da essa concepita. La spiritualità dell’autrice è in realtà pesantemente influenzata da suggestioni gnostiche e cabalistiche profondamente distanti dal cattolicesimo e dal cristianesimo tout court. Il vago umanesimo di cui sono intrise le pagine più agrodolci del diario è in realtà un amor fati statico, insormontabile, invincibile (lo ha evidenziato la studiosa olandese Solange Leibovici), smussato da una vaga retorica religiosa non priva di nuances allucinatorie. È decisamente problematico conciliare tutto questo con le continue attestazioni sulla bellezza della vita e sulla presenza di Dio in ognuno di noi, a meno di non voler ammettere che nella peculiare religione della Hillesum, dove la vita è un «totale annientamento» da sopportare «con grazia», anche un’apologia nichilistica dell’aborto possa trovare la propria giustificazione. In aggiunta a questo, si noti come l’utilizzo blasfemo di una immagine cristiana per liricizzare la propria condotta sessuale («Ho spezzato il mio corpo come se fosse pane e l’ho distribuito agli uomini. Perché no? Erano così affamati, e da tanto tempo» [ibid., p. 797]) dovrebbe far nascere più di un sospetto sulla sussistenza di una effettiva crescita spirituale.
Il “cattolicesimo” di Etty Hillesum potrebbe essere metaforicamente paragonato a un’illusione ottica di fronte alla quale molti interpreti si lasciano volontariamente ingannare. Se davvero fosse possibile attribuirle un’autentica dimensione religiosa, essa dovrebbe essere individuata, da una parte, nello junghismo assorbito dal suo mentore e amante Julius Spier, psicoterapeuta tedesco sfollato ad Amsterdam e in contatto con lo psicologo gnostico Ernst Bernhard (1896-1965, la cui teoria «mito biografica» e la passione per i culti orientali sembrano aver avuto un recondito ascendente sulla Hillesum), e dall’altra in certe correnti eterodosse del misticismo ebraico e della dottrina cabalistica (la studiosa Monique Lise Cohen fa riferimento alla cabala «estatica» o «profetica» di Abramo Abulafia [nome italianizzato di Abraham ben Samuel Abulafia, 1240-1291] e al chassidismo).
● La «debolezza» predicata e praticata dalla Hillesum è uno dei tratti che ha più affascinato gli studiosi di tutte le tendenze. Se da parte ebraica sono stati avanzati paragoni con Simone Weil (1909-1943, che negli stessi anni espresse un equivalente concetto di «debolezza» come forma di resistenza alle potenze del mondo) ed è stata tentata una lettura alla luce delle diverse escatologie israelite (in particolare quella correlata alla mistica chassidica), in campo cattolico si è soprattutto insistito su una lettura legata ai concetti tradizionali di martirio e dono di sé. Tuttavia, il teologo americano Richard R. Gaillardetz, nel saggio Sexual vulnerability and a spirituality of suffering. Explorations in the writing of Etty Hillesum (in Pacifica. Australian Theological Studies, 22/1, 2009, pp. 75-89) ha proposto un’interpretazione più controversa (peraltro partendo proprio da una prospettiva decisamente poco ortodossa): avendo preso atto che in tutta l’opera della Hillesum «non si trova una rottura drammatica da un passato oggettivamente immorale», egli ha identificato un parallelo tra le due “intimità” dell’autrice, quella spirituale e quella sessuale. Il “gesto” della preghiera, intesa come “posa cristiana” andrebbe osservato in parallelo con il “gesto” di donarsi agli uomini: «La sua eccezionale capacità di abbracciare la sofferenza e la morte altrui non deve essere separata dalla sua volontà di esplorare le dimensioni erotiche e sensuali del proprio essere». Questa «spericolata esplorazione della sessualità umana» servirebbe alla Hillesum per far emergere «la capacità latente presente in tutti noi di renderci vulnerabili non solo al nostro prossimo ma nei confronti del mondo intero». Da quest’ottica, la stessa preghiera assume il significato di un atto erotico, in una mescolanza di esaltazione pseudo-mistica e ricerca ossessiva di una sensualità che abbracci la sofferenza di tutti gli uomini «così affamati, e da tanto tempo». (Roberto Manfredini)