di Lorenzo Bertocchi
su «La nuova Bussola Quotidiana»
L’Italia pallonara è fuori dal mondiale di Russia 2018. Accade 60 anni dopo; l’altra volta, dicono gli annali, correva l’anno 1958. Diverse generazioni non lo hanno mai vissuto questo “dramma”, sono le generazioni che hanno gioito dal 1982 in poi, dal mundial di Spagna vinto contro ogni pronostico, fino a quello del 2006 vinto in Germania.
Ci ha buttato fuori nello spareggio una Svezia decisamente mediocre, una squadra di marcantoni che ha fatto onestamente il suo dovere. L’Italia di Giampiero Ventura ha buttato il cuore sul campo di San Siro a Milano, ma non è bastato, segno dei tempi, di tempi calcistici non proprio sfavillanti, sebbene molto televisivi.
Le lacrime del capitano Gigi Buffon alla fine della partita mostrano l’impegno che gli azzurri hanno messo, ma resta l’amarezza e la necessità di ripensamento di un movimento strapagato. Si potrebbero dire molte cose: i giovani calciatori italiani sempre meno valorizzati, i tanti, forse troppi, stranieri che giocano nelle nostre squadre, a volte più per interessi economici che non per meriti calcistici. Poi la questione degli introiti televisivi che ha creato una seria A sempre meno competitiva e avvincente, in cui a vincere sono più o meno sempre gli stessi.
L’allenatore della Ternana, Sandro Pochesci, dopo la sconfitta di Solna che ha permesso alla Svezia di buttarci fuori, aveva dichiarato in modo politicamente scorrettissimo che «non siamo più l'Italia di una volta, quella che vinceva e, se necessario menava pure. Gentile contro Maradona e Zico ve lo ricordate? Già, ma dove sono i difensori che marcano? Tutti pensano a impostare e nessuno a marcare l'avversario. L'ho detto anche a Coverciano, mi hanno risposto che si faceva 40 anni fa. Però ecco il risultato: ci siamo fatti pure menare e rischiamo di andare fuori dal Mondiale. Una volta l'Italia menava e vinceva, adesso ci menano e piangiamo». Un po’ sopra le righe, ma a suo modo efficace.
Davanti alla Tv in bianco e nero, bambino, guardavo l’Italia di Zoff, Gentile, Cabrini, Collovati, Scirea, Conti, Tardelli, Rossi, Antognoni e Graziani, compiere un vero miracolo italiano, battendo con la tigna e la fantasia italiana l’Argentina di Maradona, il Brasile di Zico e la Germania di Rummenigge. Gioia allo stato puro, Davide che batte Golia. Fu un momento di estasi e rilancio collettivo che a suo modo mise le ali al Paese, in modo analogo all’impresa di Gino Bartali al Tour del 1948 quando, si dice, lo salvò da una guerra civile.
Erano altri anni. Quelli in cui si sapeva ancora l’arte del sacrificio, in cui sognare e rimboccarsi le maniche erano gli ingredienti che spalancavano le porte allo “stellone” italiano. Adesso forse arriverà un nuovo commissario tecnico, i “vecchi” lasceranno la nazionale, Belotti magari alzerà ancora la cresta del gallo, ma dovremo chiederci se siamo ancora in grado di dire qualcosa di originale e interessante nel calcio. E non solo.
Proprio il movimento calcistico che resta fuori dal mondiale di Russia ci fa riflettere, perché forse questa strana “malattia” sta attraversando la nostra società e la nostra politica. Mentre i giornali parlano delle peripezie del Grande Fratello vip e delle Iene che fanno lo scherzo a Marco Travaglio, mentre ci facciamo dettare la linea di governo da altre cancellerie in giro per il mondo e i nostri ragazzi fuggono all’estero per mettere a frutto i propri talenti, non si vedono all’orizzonte anni fulgidi e di sviluppo.
Siamo un Paese che invecchia e tartassa chi ha voglia di intraprendere. Così l’Italia il suo mondiale l’ha già perso da tempo e sembra refrattaria a trovare soluzioni e responsabilità, mentre la speranza si costruisce solo con quella voglia di sognare e rimboccarsi le maniche che si è persa dietro lustrini e paillette, tatuaggi e frasi fatte. L’Italia, anche quella pallonara, rinascerà solo se ritroverà se stessa, le sue radici culturali e spirituali. Quelle che hanno costruito la nostra storia e che stiamo perdendo.
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