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Benedetto XV grande Pontefice e profeta di pace, non solo il Papa della «inutile strage»
NEWS 4 Novembre 2016    

Benedetto XV grande Pontefice e profeta di pace, non solo il Papa della «inutile strage»

di Salvatore Cernuzio

 

Un “autentico profeta della pace”, che non esitò a condannare la Prima Guerra mondiale che scoppiò a poche settimane dalla sua elezione sul soglio petrino. Un “incubatore” di grandi tragedie come quella armena, costretto a “vedere l’orrore” di popoli sterminati ferocemente. Un Papa che ha inaugurato il ‘900, dovendo far fronte alle sue “attese contrapposte”. Un diplomatico. Un pastore. Un cristiano.

È stato tutto questo Benedetto XV, agli annali Giacomo Della Chiesa, secondo il cardinale Segretario di Stato Pietro Parolin, e non solo il Papa che pronunciò la storica espressione “inutile strage” in riferimento alla Grande Guerra. “Spesso la sua figura ha rischiato di venire quasi compressa e quasi trasformata in una semplice premessa a quella frase memorabile, lapidaria al pari di un giudizio profetico, della Prima Guerra Mondiale come ‘inutile strage’, riducendo la sua azione ad un puro contorno a quell’atto”, ha osservato Parolin, intervenendo nell’Archiginnasio di Bologna ad un convegno scientifico sul Pontefice genovese dal titolo ‘Papa Giacomo della Chiesa nel mondo dell’inutile strage´.

La complessità del suo pontificato e la vita di governo e diplomatica sono rimaste solo “uno sfondo, presto reso illeggibile da un’altra guerra, da altri Papati, dalla nuova Europa che usciva divisa dalle macerie del nazifascismo”, ha detto il Segretario di Stato. Che ha voluto subito richiamare la definizione che Joseph Ratzinger diede del suo predecessore di cui volle prendere il nome, “un autentico profeta della pace”, per spiegare il ruolo che Dalla Chiesa svolse durante quel tragico conflitto di cui fu un fermo oppositore.

Fin dalla prima enciclica Ad beatissimi, ha ricordato il card. Parolin, Papa Benedetto “rifiutò di schierarsi con l’Intesa o gli Imperi Centrali, optando per una stretta neutralità, che solo ad occhi ingenui sarebbe potuta apparire come una scelta di comodo e indolore”. In quel primo documento egli manifestò “l’intenzione di porre fine alla fase di contrasto più acuta del modernismo, aprendo la via a quella Chiesa che preferisce la medicina della misericordia alle armi della severità”.

Una posizione che gli costò “un dileggio diverso di rango internazionale”: fu definito “Le Pape Boche” dalla stampa francese, il “Franzosenpapst” in quella tedesca, “Pilate XV” per il romanziere Léon Bloy e, per il patriottismo italiano, l’ingiurioso “Maledetto XV”. Egli però – ha spiegato Parolin – “cercò la coniugazione, sempre difficile in tutti i tempi, fra il principio paolino dell’obbedienza ai governanti e il principio escatologico della pace come strumento di annuncio del Vangelo del Regno di Dio”.

Una “coniugazione delicatissima” in un contesto bellico nel quale “quasi 10 milioni di soldati persero la vita e milioni di uomini si trovarono bisognosi di un soccorso in cui il Papato si prodigò senza sosta – con riconoscimenti scontati e meno scontati, come quel monumento che la Turchia gli fece erigere nella cattedrale latina di Santo Spirito a Istanbul, officiata per dieci anni dal futuro Giovanni XXIII”.

“Questo profilo del Papato, che è oggi dato per scontato da tutti, a tutte le latitudini politiche, è un’invenzione di Benedetto XV”, ha affermato il Segretario di Stato. Sua invenzione furono pure “alcune tendenze che segneranno tutto il secolo XX”.

Benedetto XV è infatti “il primo Papa che non vede più ad est di Roma un impero, ma un ‘Medio Oriente’, con problemi insolubili e a volte sembra perfino insoluti oggi”, ha detto il cardinale, “un incubatore di grandi tragedie come quella armena, e di nostalgie avvelenate come quella che ha percorso quelle terre fino ad oggi”. “Lì – ha aggiunto – la Santa Sede si è trovata davanti alle comunità dei cristiani in comunione con Roma, per le quali essa chiedeva protezione; ma anche alle altre comunità cristiane apostoliche o antichissime, con le quali i rapporti erano stati spesso tesissimi”. 

La diplomazia pontificia durante il suo governo era “fatta di pochissime Nunziature nei Paesi in guerra cioè Monaco, Madrid, Vienna e Bruxelles, di relazioni di minor livello con la Sublime Porta, il Cremlino, Buckingham Palace e la Casa Bianca, e di un rapporto che definirei a-diplomatico con Italia e Francia. Dopo il conflitto questa rete si allargò alla Svizzera, alla Romania, e al Venezuela”.

Dunque, “una diplomazia spesso costretta ad assaporare l’impotenza – ha osservato Parolin – come nel caso delle tre lettere mandate al Sultano perché fermasse il massacro degli armeni e che non ebbero risposta”. Tuttavia, “fu grazie alla sua intuizione di fare della mediazione e della pace lo strumento per rientrare nel gioco diplomatico che si ruppe l’isolamento successivo alla fine del potere temporale”. 

Il suo pontificato “si inserisce in un filo rosso che farà della pace l’obiettivo primo della diplomazia pontificia”, ha evidenziato il cardinale. Quel filo rosso, cioè, che lega la Pacem in terris di Papa Giovanni XXIII, alla Evangelii Nuntiandi di Paolo VI e la Evangelii Gaudium di Papa Francesco, “il quale lo interpreta ponendo con ferma costanza davanti agli occhi di tutti il dramma dei rifugiati, che le guerre odierne sospingono verso l’Europa”.

Benedetto XV – ha proseguito Parolin – “è il Papa che incontra il Novecento e per la prima volta incontra attese contrapposte. Ciascuno si aspetta da lui qualcosa e sembra che ognuno abbia ragioni di delusione: finisce con lui il tempo della prevedibilità anche politica della Santa Sede, quello in cui il Papato replica degli schemi già visti, e inizia a portare dentro un tempo tragico convinzioni spirituali e visioni del mondo che cambiano di senso nel nuovo contesto”, ha detto il Parolin. 

Benedetto XV “è anche il Papa che deve vedere l’orrore: non che prima non ci fossero stati grandi ecatombi o guerre sanguinose, ma lui per primo vede le masse che hanno fatto irruzione sulla scena politica usate come carne da cannone e sperimenta la sordità del mondo davanti alla ‘pulizia etnica’ che stermina gli armeni”, con una ferocia che egli definì come un “annientamento” nel Natale 1915.

“Le parole e i gesti di Papa Della Chiesa aprono una via: la Chiesa non deve solo decidere cosa dire, ma anche cosa fare e non a caso verrà percepita come una ‘seconda Croce Rossa”, ha sottolineato il Segretario di Stato. Dalla sua neutralità il Pontefice “trae un’enorme forza morale” che “non gli viene riconosciuta dai Governi, ma che lo protegge dal discredito che travolge altri, come ad esempio l’Internazionale socialista”.

Anziché “leggere la guerra come un mero castigo dell’apostasia moderna”, Benedetto XVI “la vede come occasione di un annuncio della pace che si misura con strumenti diplomatici standard: da qui nasce il suo sforzo per cercare una tregua”. In questo senso, egli è stato un “autentico profeta della pace”, che anche nei difficili quadranti nazionali ha dato un apporto enorme.

Un’opera che, secondo il porporato, manca di uno studio approfondito che cominci proprio dall’illuminare la figura e il ruolo che Giacomo Della Chiesa svolse come Pastore e Pontefice “in un frangente tanto drammatico e carico di enormi implicanze per lo sviluppo degli avvenimenti che presero il via dalle conseguenze della Prima Guerra mondiale”.