Un nuovo sovranismo s’aggira per l’Italia: quello linguistico. È la rivendicazione dei confini non geografici ma terminologici contro le incursioni – in realtà già molto numerose – dell’inglese nella lingua di Dante. Si tratta di un sovranismo che, per la verità da anni, tenta di farsi strada nell’ordinamento giuridico. Già da tempo, infatti, le forze politiche di destra, in particolare Fratelli d’Italia, chiedono la «costituzionalizzazione» dell’italiano.
Un tentativo a cui, in questi giorni, se n’è affiancato un altro: una proposta di legge di Fratelli d’Italia e del vice presidente della Camera Fabio Rampelli che richiede l’abolizione dei termini inglesi dai documenti ufficiali del governo e delle istituzioni italiane e l’inserimento della lingua italiana in Costituzione.
Sono in effetti molte – da spending review a flat tax, da jobs act a greenpass – le espressioni di derivazione anglosassone diventate di uso comune nel lessico politico; il che, se da un lato può dare il sapore di una internazionalizzazione, dall’altro rappresenta una minaccia per la stessa sopravvivenza della nostra lingua, già insidiata da un’erosione paragonabile a quella causata dal global warming delle calotte polari.
Gli insegnanti di lettere avranno ben presente la questione di cui si sta parlando e che, purtroppo, ha pure un risvolto quantitativo notevole. Delle oltre 220.000 parole che costellano il nostro sterminato vocabolario, i ragazzi, quando va bene, oggi ne padroneggiano appena 200; per non parlare del congiuntivo: ora trascurato, ora deturpato dalle storpiature. Il mancato uso di determinate parole, va da sé, alimenta poi l’ignoranza.
Accade così che il 28% dei giovani italiani pensi che «elidere» significhi «volare», mentre il 24% sostiene che «abiurare» sia il verso d’un non meglio precisato animale; per il 35% dei ragazzi della penisola «dirimere» è sinonimo di «andare a zonzo» e quasi tre su quattro ammettono di essere indecisi tra «se» e «sé» quando scrivono.
Attenzione, però, a non ridurre la colonizzazione dell’”itanglese” a un mero fatto di cultura o ignoranza. Ci sono almeno altri due profili sotto i quali conviene osservare questa situazione. Il primo è quello identitario. Preservare l’italiano non significa solo difendere una lingua ricchissima e precisa – anche se non come il latino rimpianto da Giovannino Guareschi -, ma anche le nostre radici e il nostro patrimonio, un tesoro che sarebbe imperdonabile disperdere, anche perché condensa molti secoli di storia.
In secondo luogo, ultima ma non meno importante considerazione, c’è l’aspetto del pensiero. Ma sì, perché barattare una lingua con un’altra – o consentire a una di essere eccessivamente contaminata da un’altra – alla lunga significa anche subire la visione ideologica della lingua prevalente.
In altre parole, allorquando si inizia a parlare una lingua diversa, ecco che in breve tempo si finisce col pensare in modo diverso. Quale? Per esempio quello delle linee guida Ue che, seppur siano state ritirate, avrebbero previsto una sostanziale censura del Natale. Che il legame tra lingua e pensiero ci sia, in casi come questo, è confermato anche da un filosofo insospettabile di simpatie conservatrici: Gianni Vattimo.
«Quando ero al Parlamento europeo mandavano bigliettini di auguri per il Natale», ha osservato Vattimo, «cosa fanno ora, ti augurano di salvarti dal freddo inverno? La lingua deve rimanere com’è, il resto sono pretese purificanti che non modificano nulla».
Anche se un po’ utopico, forse, ecco allora che il sovranismo linguistico si configura come una prospettiva interessante, che non vuole imporre nulla a nessuno ma persegue un fine nobile: quello di difendere le tradizioni, l’identità e le radici. Anche del pensiero.
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